ALDO CAROTENUTO E L’INDIVIDUAZIONE

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[…] Và, figlio, con la mia benedizione,
e imprimiti a caratteri di stampa
nella tua mente queste poche regole:
[…] accogli sempre l’opinione altrui,
ma pensa a modo tuo…

[…] Ma soprattutto tieni questo in mente: sii sempre, e resta, fedele a te stesso;
ne seguirà, come la notte al giorno,
che non sarai sleale con nessuno.
Addio, figlio. La mia benedizione
trapianti e faccia maturare in te
questi pochi precetti di tuo padre.

Amleto

Atto I, Scena II
La chiamata verso se stessi

Quando nell’Amleto Shakespeare ci presenta Polonio che consiglia suo figlio Laerte dicendo: “sii sempre, e resta, fedele a te stesso; ne seguirà, come la notte al giorno, che non sarai sleale con nessuno”, un intero mondo interiore è chiamato a rivelarsi ed a superare lo squarcio doloroso tra ciò che noi veramente siamo – quando siamo fedeli a noi stessi – e i ruoli che interpretiamo sulla scena sociale. Da Shakespeare a Freud, questo tema acquisisce sempre più centralità fino alla sua celebrazione nel concetto di “processo di individuazione” junghiano o in quello del “tradimento come fedeltà a se stessi” di Aldo Carotenuto.

Ciò che oggi intendiamo per “sincerità” è qualcosa di piuttosto recente nella vita etica della cultura europea. Lionel Trilling, scrittore americano, nel suo libro più recente[1] lo colloca nel periodo a cavallo tra la società medievale ed il mondo moderno, tra il sec. XVI e XVII (periodo nel quale visse Shakespeare). In questo periodo gli storici situano una grande trasformazione nella vita interiore dell’uomo: la chiamata verso ciò che un uomo più ardentemente desidera e la vera fonte di gioia e felicità, “essere se stessi”. Felicità questa frequentemente inquinata dai panni-ruoli sociali che siamo chiamati, a volte persino costretti, a indossare.

Dai primordi dell’idea di “sincerità” in Shakespeare all’acuta coscienza dei ruoli sociali in autori più moderni come Pirandello, Jean-Paul Sartre, Guy de Maupassant, James Joyce e tanti altri, la tensione tra l’io autentico e le maschere sociali ha segnato la storia del mondo moderno e Carotenuto stesso, consapevolmente, non sfuggì mai a questa contraddizione in tutta la sua ironia e lacerazione: da un lato il sentimento di prigionia nella “maschera” prestigiosa di professore universitario, psicoanalista rinomato e scrittore di successo, costruita durante la sua lunga carriera; dall’altro, la sua dimensione più autentica e creativa; quel “qualcosa che gli urlava dentro”, e gli chiedeva totale libertà.

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Individuazione/iniziazione

Nell’intento di spiegare il “processo di individuazione”, cardine della psicologia junghiana e della sua terapia, Carotenuto amava citare come esempio la “musicalità della lingua”, quell’accento particolare, gesti o espressioni tipiche di un determinato contesto socio-culturale, che riusciamo a vedere chiaramente in ogni persona che incontriamo. Meno evidente, sottolineava il maestro, è “tutto il resto”, tutto ciò che “beviamo con il latte”, come si usa dire, dalla famiglia e dall’ambiente circostante: atteggiamenti, valori, visione del mondo, modalità comunicative più o meno sottili, tipiche di una determinata comunità o nazione. Questi valori o atteggiamenti che “facciamo nostri”, e che generalmente non ci appartengono, ad uno sguardo sensibile appaiono chiaramente posticci. Valori e atteggiamenti dei quali ci siamo appropriati proprio come ci siamo appropriati dell’accento con cui parliamo e dei nostri gesti abituali.

Il “processo di individuazione” prevede la ricerca, al di là della “maschera” sociale, della nostra vera identità e l’ascolto della nostra voce interiore: quella flebile voce che generalmente viene soffocata dal rumore del mondo e non viene mai presa in considerazione. È un percorso di consapevolezza di noi stessi e di differenziazione dalla “voce del coro”, da tutti quei dettami che provengono dal mondo esterno. Voce che abbiamo interiorizzata e che esprime ciò che Jung chiamerà “valori collettivi”.

Dal momento che viviamo un’esistenza che è condizionata dagli altri, la piena realizzazione della personalità non è solamente un processo di sviluppo, ma è soprattutto un processo di decondizionamento da tutto ciò che fino a quel momento ci ha reso ben adattati e integrati in un determinato contesto sociale. Giordano Bruno affermava che “arriverà il giorno nel quale l’uomo si sveglierà dall’oblio e finalmente comprenderà chi egli è realmente e a chi o a cosa ha ceduto le redini della sua esistenza, ad una mente falsa, menzognera che lo tiene schiavo”. Un percorso “rischioso”, da un certo punto di vista, ma che ci consente di ritrovare quei valori autentici, fondamentali per la nostra vita, che Jung chiama appunto “valori individuali”. Se non esistesse questo impulso di differenziazione e trascendenza la vita non sarebbe altro che un’esistenza indifferenziata, per certi versi grezza, più vicina all’esistenza animale, come quella di molte persone che, ci ammonisce Carotenuto, non sospettano neppure che dietro la loro maschera di adattamento si compia il tradimento di un intero mondo interiore, dell’autentico , soffocato dai dettami e dai valori della coscienza collettiva.

Il condizionamento dal mondo esterno può essere anche positivo, in quanto ci troviamo in costante relazione con “gli altri” e non possiamo e non dobbiamo fare a meno della vita comunitaria. Accade spesso che i valori individuali coincidano con quelli collettivi, ma anche in questo caso questi devono essere frutto di un’autentica ricerca interiore, devono essere ogni volta conquistati, solo così acquisiscono vita propria ed un autentico significato. Lo sviluppo della personalità è, quindi, un processo che trascende le naturali tappe evolutive attraverso le quali una persona raggiunge la maturità ed un adeguato adattamento alla collettività. Il vero fallimento esistenziale è, in questo senso, quello di “non vivere la propria vita”: di identificarsi con la “maschera” e aderire acriticamente ai valori collettivi. “Ogni vita non vissuta rappresenta un potere distruttore e irresistibile che opera in modo silenzioso ma spietato”, afferma Jung.

Secondo P.D. Ouspensky quando un uomo inizia a conoscere se stesso comprende che i suoi pensieri, idee, abitudini, le stesse colpe, lodi o infamie, tutto ciò con cui fino a quel momento si è identificato non gli appartiene veramente: “tutto si è formato per imitazione, oppure è stato copiato da qualche parte, tale e quale”. L’uomo che riesce a sentire tutto ciò sente fino in fondo la propria nullità. “Svegliarsi” per Ouspensky significa prima di tutto rendersi consapevole del proprio essere nulla ed avviarsi ad un processo di “disipnotizzazione”.

Molte volte, durante le sedute iniziali di una terapia, si ha l’impressione che la voce della persona che ci sta davanti e che ci parla non sia veramente sua. Appare molto chiaro che le opinioni, espressioni, pensieri che ascoltiamo siano prive dell’essenza vitale, siano parole morte, parole che sembrano posticce e a volte persino stridenti: qualcun’altro o qualcos’altro parla per bocca sua… ma chi parla? Forse il padre o la madre, l’attore di grido, forse un titolo di giornale o uno spot pubblicitario. Con il procedere delle sedute, molto lentamente la flebile voce autentica racchiusa dentro al petto si fa sentire, così come i pensieri, le idee, i valori. Le parole si ravvivano, si riempiono di verità e acquisiscono un suono diverso, un suono decisamente più gradevole.

Prendere coscienza di ciò che abbiamo di unico significa integrare non solo l’Ombra, ma anche L’Anima nei suoi vari livelli, significa unirsi con quelle parti di noi che non conosciamo (inconsce) e superare la profonda scissione. Pertanto l’individuazione viene definita come “il processo per cui un essere umano diviene ‘intero’ e si differenzia dalla psiche collettiva conscia e inconscia”. Lo scopo ultimo dell’evoluzione della personalità è proprio questo divenire “individuo”: un essere non diviso, integrato nella sua totalità di luce e ombra, maschile e femminile.

Le persone che hanno spento dentro di loro la brama per la propria ricerca interiore – inizialmente una flebile fiamma che, se assecondata, tende a divampare – sono immediatamente riconoscibili in quanto sembrano pietrificate: questa inespressività e rigidità impedisce loro di “fluire” nel fiume della vita e di accedere ad ogni ulteriore evoluzione psicologica, ma soprattutto di relazionarsi autenticamente con un altro essere umano.

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Diversità/coraggio

Affrontare la vita in un modo che non sia banale, individuale piuttosto che collettivo, significa intraprende un percorso esistenziale di ricerca interiore unico e irrepetibile che richiede una forza e un coraggio da non sottovalutare. Per Carotenuto il processo di individuazione, da lui considerato “lo scopo ultimo dell’esistere umano”, ha un costo altissimo in termini di sofferenza e prevede il passaggio obbligato attraverso la solitudine. La voce interiore “che ci urla dentro” e che cerca instancabilmente di farsi sentire in mezzo al frastuono del mondo a volte può essere tiranna, e pretendere la rinuncia alla nostra rassicurante visione del mondo… in cambio di un’assoluta libertà.

Il sacrificio, che ogni collettività esige dai singoli, è tanto più sofferto quanto più prorompente è l’individualità. La solitudine è quindi inevitabile quando non possiamo esimerci dal prendere in mano le redini del nostro destino: dall’essere gli artefici dei nostri pensieri, motivazioni, valori e, soprattutto, responsabili della nostra vita. L’alternativa patologica è una vita falsa, confinata negli angusti limiti dei ruoli sociali, una vita che rispecchia inesorabilmente le richieste del “Coro”, le sue aspettative e definizioni. Una vita costruita su reazioni agli stimoli esterni, accompagnata da un sentimento di assoluta inutilità.

“Dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”, sosteneva Ghandi, e Carotenuto ha fatto di questo principio il leitmotiv della sua vita: attivare nell’analizzando la forza e il coraggio di venire fuori, di fare coming out, cambiamento questo che riguarda ognuno di noi nel momento in cui vogliamo esprimere ciò che veramente siamo, uccidere il drago dei luoghi comuni e dei ruoli convenzionali. Immettendo nella propria vita, fino alle sue estreme conseguenze, il principio che vorrebbe vedere attivarsi nei suoi analizzandi, Carotenuto diviene lui stesso “materia incandescente”, un catalizzatore del processo di individuazione: “se io non dialogassi continuamente con qualcosa che mi urla dentro, che preme per uscire, che fa male e che chiede il diritto di esistere, non avrei alcuna possibilità di entrare in contatto con altre persone, le quali hanno anche loro, in modo più o meno diverso, un’analoga esigenza psicologica”.

La conquista della coscienza è un opus contra naturam, ci ricorda Jung, e non possiamo legittimamente sperare di non pagare il “prezzo” richiesto (in sofferenza) per la nostra evoluzione. Per Carotenuto la conquista della consapevolezza è un atto di trasgressione, una vera e propria sfida alla natura e la nostra salvezza sembra nascere proprio da questa sfida. È il vero “peccato originale” che, come per Adamo ed Eva, significa dolore e presa di responsabilità.

“Questa sofferenza mi spingeva ad estraniarmi dai miei coetanei: ho imparato, da bambino a conoscere la solitudine, che mi accompagna tutt’ora […] Spesso mi accorgo di intuire, di sapere certe cose, ma quando cerco di parlarne non vengo capito […] Questa purtroppo è un’esperienza che bisogna imparare ad accettare. In un primo tempo può far male, può essere estremamente conturbante, poi si capisce che essa è strettamente legata alla capacità di vedere lontano, ‘dietro gli angoli’ [..] Parlando con le persone, mi accorgo di frequente che esse non sono riuscite a guardare tanto oltre”.

È spontaneo a questo punto chiedersi quale possa essere la “via reggia” per conquistare un certo margine di libero arbitrio rispetto ai condizionamenti interni ed esterni. Per Carotenuto è:

 

La via dell’amore 

Tra tutte le grandi polarità dell’universo con cui ogni uomo è chiamato a confrontarsi consapevolmente: il bene e il male, la libertà e la prigionia, il femminile ed il maschile, l’umano e il divino etc. la coppia archetipica uomo-donna è quella dove gli opposti maggiormente si attraggono, ma è contemporaneamente anche la polarità più difficile da ricongiungere. L’unione profonda tra un uomo e una donna rappresenta la più importante delle occasioni per avvicinare e riconciliare tutti gli opposti presenti in ognuno di noi (mysterium coniunctionis). Ogni esperienza vissuta o anche sofferta durante questa via ha un’importanza che va molto al di là della dimensione fisica ed è un’insostituibile palestra della nostra evoluzione.

La trasformazione della materia bruta in oro è quindi un’opus da conseguire prevalentemente a due, come descritto nella tradizione del Tantra – una delle più importanti vie iniziatiche orientali – e gli alchimisti (che spesso lavoravano in coppia) lo sapevano bene. L’Anima (o Animus), definita da Jung come la nostra controparte inconscia, una volta incarnata nel nostro amato/a è colei (o colui) capace di attivare in noi tutto il coraggio e l’ardore necessario all’azzardata ricerca di quella parte unica e irrepetibile di noi stessi che contiene il segreto di chi veramente siamo e del nostro progetto esistenziale.

Come ci ricorda Carotenuto occorre coraggio per “cadere in amore” (to fall in love) e trascendere il nostro piccolo io con tutte le sue false identificazioni. I veri psicoanalisti sono coloro che, con grande forza interiore, hanno saputo evocare, prima di tutto in se stessi, il Demone dell’Amore che caratterizza le varie fasi del percorso analitico: il maschile rimosso nella donna ed il femminile rimosso nell’uomo.

Questo incontro con l’Anima viene magistralmente descritto da Carotenuto nel suo libro Le rose nella mangiatoia. Metamorfosi e individuazione nell’Asino d’oro di Apuleio, libro ispirato a Le Metamorfosi o L’Asino d’oro di Apuleio: romanzo chiaramente iniziatico scritto quasi diciotto secoli fa, la cui trama è molto vicina al tema dell’individuazione/iniziazione, l’assunto più rappresentativo dell’opera del nostro maestro partenopeo. Riletto dall’autore in chiave moderna, il testo di Apuleio ci offre numerosi spunti di riflessione sul tema della trasformazione psicologica. Il rapporto tra Lucio – il personaggio apuleiano che nel racconto si metamorfosa infinite volte – e le differenti donne che incontra durante il suo percorso diventa lo spazio privilegiato di incontro con l’altro lato, il lato segreto dell’esistenza: una sorta di “crogiolo alchemico” all’interno del quale, in ognuna di loro, Lucio incontra se stesso.

A confronto con gli scritti kafkiani (Carotenuto, 1989), nei quali i personaggi soccombono ad una condanna definitiva ed inesorabile, la storia di Apuleio ci offre un diverso paradigma di riferimento che contempla la speranza e il riscatto. L’episodio della morte di Socrate costella in Lucio un diverso modus vivendi che presuppone una comprensione non solo intellettuale ma soprattutto emotiva e una profonda partecipazione nell’atto di vivere. Possiamo cogliere, disseminate nel testo, le tracce del cammino di morte e rinascita (individuazione/iniziazione) che il personaggio Lucio compie coraggiosamente fino in fondo: la risalita dagli inferi verso la Luce e la sua resa all’eterno fluire dell’esistenza.

Non possiamo capire fino in fondo il significato di questo percorso esistenziale se non lo abbiamo percorso noi stessi, così come non possiamo capire l’incontro con l’Ombra se non conosciamo la potenza della sua distruttività, né comprendere il concetto di Anima senza aver fatto esperienza del dolore e della sua forza raggiante nelle nostre relazioni amorose. Così avviene anche in analisi quando, dopo momenti di grande sofferenza, si acquisisce la capacità di percepire un’altra realtà, celata fino a quel momento dietro il velo delle certezze collettive. Nel testo di Apuleio solo la trasformazione di Lucio in asino, dopo tante vicissitudini, gli consentirà di avvicinarsi alla dimensione “Anima” rappresentata dalla dea egizia Iside.

Ogni percorso di auto-conoscenza è un compito interminabile che rimanda ad una concezione del­l’uomo in continua evoluzione e che rappresenta la nostra più grande libertà: libertà da un’esistenza determinata dall’eredità genetica, dal Destino, dalla nostra posizione in seno alla famiglia ed alla società. Ma la diversità ha sempre un prezzo, in quanto implica reazioni collettive ed effetti a catena non sempre di facile gestione. Diversità che, non a caso, rimane un privilegio di poche persone. Per Platone “Demone” è colui che aiuta un altro essere umano a compiere questo destino di diversità e anche Carotenuto, sulla scia del grande filosofo greco, considera la diversità qualcosa di “demoniaco” perché demoniaca è la forza che ci consente di liberarci dalla paura e mostrarci al mondo per ciò che veramente siamo.

Possiamo riconoscere in ogni persona che ha lasciato un’impronta nella nostra vita quel segno, “demoniaco” appunto, del pegno pagato: il segno del riscatto a caro prezzo della propria unicità e l’espressione di una conoscenza del mondo in termini completamente diversi da come è stato loro insegnato. Scienziati, artisti, filosofi, o più semplicemente qualcuno cha ha vissuto una vita autentica, hanno dovuto strappare a forza questa dimensione di originalità e pagare uno scotto molto alto per la propria libertà.

 

Il Tempio di Shàolín

La nostra sofferenza e i nostri sintomi stanno a significare che il vecchio “programma” (proprio come un hard disk) che ci è stato assegnato non ci appartiene più e per ciò non è più funzionante… sintomi che segnano l’inizio di un lento risveglio dall’oblio della vita interiore e che di solito definiamo depressione. A questo punto siamo chiamati alla ricerca di un’altra modalità esistenziale: la nostra. Iniziamo così scivolare lungo una discesa impervia, a volte un vero e proprio abisso, in fondo al quale c’è la vita che pulsa e che abbiamo così a lungo dimenticato. All’inizio di questa discesa abbiamo paura perché ci appare impossibile risalire. La caduta di Lucio, il personaggio apuleiano, è una risposta all’oblio di se stessi e alla stagnazione: a quel fossilizzarsi in un’unica forma, che è la vera essenza della patologia. La psiche è dinamica e variegata, come la Vita stessa e l’individuazione non è altro che un’interminabile “danza” sul ciglio dell’abisso tra l’io ed il , tra l’interno e l’esterno, attraverso la quale si esprime il significato individuale di ogni esistenza.

Fin dell’antichità abbiamo avuto a nostra disposizione molti strumenti, l’ultimo in ordine di tempo è lo strumento analitico, per tenere il passo di questa danza, raggiungere un nuovo equilibrio e riemergere dalla parte più luminosa della vita. Come in ogni percorso iniziatico degno di questo nome, la strada dell’individuazione è una sorta di rito sacrificale, nel quale ci si spoglia dai nostri ruoli abituali e dal protagonismo assoluto dell’io per accedere ad una dimensione esistenziale molto più ampia.

Ciascuno di noi è parte di un organismo più grande, l’Umanità, in seno alla quale siamo chiamati, come membri individuali, a svolgere la nostra particolare funzione. “Se io ometto di attuare sulla Terra l’umano che si esprime nell’unicità del mio essere, l’umanità viene impoverita, perché le viene a mancare quel modo di irraggiare l’umano che può promanare soltanto da me”[2], scrive Pietro Archiati.

Anticamente all’ingresso del Tempio di Shàolín, un tempio molto importante nella storia del buddhismo cinese, c’erano incisi due numeri sulla porta: da un lato il numero dei monaci che vivevano nel Tempio e dall’altro lato della porta il numero delle religioni esistenti in quel Tempio: due numeri identici. La vera libertà, quella che regnava nel Tempio di Shàolín, è la libertà di cercare e di conoscere “quell’unico modo di irraggiare l’umano che può promanare soltanto da me”. L’unica possibile espressione, in noi, della vita che scorre e del divino che ci abita.

[1] [1] Trilling, L., Sincerità e autenticità – la vita in società e l’affermazione dell’io, Editora E Realizações, São Paulo, 2014.

[2] Archiati, P., Guarire ogni giorno, Edizioni Archiati Verlag e K., Memmingen (Germania), 2007, p. 117.[2] Ibidem, p. 118

Dal deserto alla Terra Promessa

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Dal deserto alla Terra Promessa.

La via dell’individuazione/iniziazione

 

Non lascerò il mio spirito nell’uomo perché rimanga sterile.

Genesi 6, 3.

 

 

Il Dio ballerino
esodo1
Mi trovavo seduto sulla spiaggia al calare del sole e osservavo il movimento delle onde, sentendo allo stesso tempo il ritmo del mio respiro. Improvvisamente iniziai a percepire intensamente l’ambiente che mi circondava: mi sembrava che ogni cosa partecipasse a una gigantesca danza cosmica. Come fisico, sapevo che la sabbia, le rocce, l’acqua e l’aria intorno a me erano fatti di molecole e atomi in vibrazione e che tali molecole e atomi, a loro volta, consistono di particelle che interagiscono tra loro attraverso la creazione e la distruzione di altre particelle. Sapevo, nello stesso modo, che l’atmosfera della Terra era perennemente bombardata da piogge di “raggi cosmici”, particelle di alta energia che subivano multiple collisioni nella misura in cui penetravano nell’atmosfera. Tutto questo era per me familiare per via delle mie ricerche nell’ambito della Fisica dell’alta energia; fino a quel momento però tutto questo mi era arrivato attraverso grafici, diagrammi e teorie matematiche. Seduto sulla spiaggia quel giorno sentii che le mie conoscenze acquisivano vita. Così ho “visto” cascate di energia cosmica, provenienti dallo spazio esteriore, cascate all’interno delle quali particelle erano create e distrutte in pulsazioni ritmiche. Ho visto gli atomi degli elementi – così come quelli che formavano il mio corpo – partecipare a questa danza cosmica di energia. Sentii il suo ritmo ed ascoltai il suo suono. In questo momento compresi che si trattava della Danza di Shiva, il Dio ballerino, adorato dagli indù[1].

L’esperienza del fisico Fritjof Capra, autore del libro cult degli anni settanta Il Tao della fisica, così come viene descritta dall’autore, ci appare “illuminante”, nel vero senso del conoscere che è quello di “sentire il sapore” e coglierne l’essenza[2]. Secondo Platone la conoscenza deve essere fondata sul brivido che la bellezza desta nel cuore: più riusciamo ad assaporarla, più “entriamo nel segreto” e ci trasformiamo. È questa la “via di dentro”, attraverso la quale possiamo attingere a quella conoscenza viva che è contemporaneamente conoscenza di noi stessi. La via di fuori, la via esteriore alla conoscenza, tipica della scienza tradizionale, come ogni sapere acquisito con lo studio, rimane sempre dualistica: il conoscente e la cosa conosciuta, e conduce l’uomo ad una visione del mondo priva della sua grazia e del suo sapore, sganciata dai suoi archetipi fondamentali: una visione an-archica, nella quale si instaura un ordine apparente, le cui leggi non sono più in relazione con quell’armonia naturale che nasce dalla connessione di ogni cosa con il suo modello ontologico, possiamo anche dire “divino”.

Ogni ideologia o scienza che non si basa su questa connessione fondamentale è in fondo illusoria, un’utopia nel senso etimologico del termine che significa un “non luogo”: “conoscenza ottenuta attraverso lo scasso”, come viene descritta in ambito cabalistico. Nell’ottica di una rottura totale tra la conoscenza che emerge dall’interno e quella acquisita dall’esterno, quest’ultima “libera il pensiero ma aliena l’anima”. Pensiero che una volta reso autonomo perde tutta la sua linfa e genera “il parassita” che separa e prosciuga ogni cosa dalla sua forza vitale, la cui corrispondente definizione profana-occidentale è la Peste descritta da Wilhelm Reich: uno stato di alienazione normalizzata che genera morte. Morte, come vedremo in seguito, che può aprire le porte ad una nuova nascita.

Nel racconto biblico, il dramma della caduta consiste nell’abolizione totale dei fili che allacciano ogni cosa alla propria radice archetipica, la fonte di Vita, e di conseguenza al mondo tutt’intorno. Il serpente della genesi è l’elemento “perverso” che conduce l’uomo ad acquisire la conoscenza solo esteriore, conoscenza che “cosifica” il mondo, lo manipola con la sua visione inanimata e meccanicista che nulla ama e nulla trasforma; e l’uomo, cieco dinanzi alla propria interiorità, rimane cieco alla profondità di ogni realtà, che gli sfugge tra le dita come la sabbia del deserto.

 

Il dramma della caduta

Dalla cacciata dal giardino dell’Eden, al mito platonico dell’androgeno, a Cartesio che afferma: “Penso, quindi esisto”, se penetriamo sempre più intimamente nel mondo dei miti e credenze che hanno dato origine alla nostra attuale visione del mondo, riusciamo a cogliere il significato profondo e la genesi del dramma cosmico: il “dramma della separatezza” tra noi e il mondo, tra noi e gli altri. Da questo dramma e dal conseguente dolore prende forma tutta la nostalgia umana, tutto il rimpianto verso una completezza che ci appare come definitivamente perduta.

L’eterno problema del male, della sofferenza o della “sindrome da nullità” rimanda in primo luogo a questa separatezza che intorpidisce il cuore e rende l’uomo anestetizzato: un uomo che non reagisce più a ciò che scorge dinanzi a sé e che trasforma ogni cosa pulsante e viva e tutta la bellezza del mondo in un deserto di monotonia, il deserto nel quale oggi viviamo.

L’uomo del deserto è colui che ha distrutto ogni collegamento con i suoi spazi interiori, con il suo “centro di gravità permanente”, direbbe Battiato. Stando alle nostre tradizioni spirituali, ogni essere umano è, nel suo nucleo interiore, pura essenza e questo doloroso vissuto di alienazione viene descritto come “Il seme divino prigioniero nell’uomo”. È questa totale estraneità dalla propria vita interiore che genera il parassita e tutte le forme di schiavitù.

Contrariamente a ciò che sosteneva Descartes, la nostra tradizione spirituale può affermare, riferendosi a questo Centro essenziale dell’uomo: “Io sono; dunque io penso”. Come ci descrive Capra, siamo esseri vibranti in un cosmo vibrante. Tutto intorno a noi danza e canta l’inno della Vita, quel suono magico che intesse l’armonia dell’universo. La disarmonia nasce quando stoniamo, quando emettiamo suoni disarticolati e cacofonici e non partecipiamo più a questa misteriosa armonia sonora; quando, nell’universo lacerato, tutto diventa “cosa” in una sorta di riduzionismo omicida.

“Ogni cosa viene ridotta alla sua stretta apparenza, dietro la quale niente lampeggia di un’altra luce, niente sussurra di un altro dire, nessun profumo si sprigiona, nessuna danza viene accennata che possa coinvolgere il Verbo e renderlo in essa tangibile! Nessun cuore batte. Tutto è glaciale, compreso quel ‘Dio morto’ che alcuni ancora cantano in occidente, nei templi vuoti di tante parrocchie, i quali per restargli fedeli divengono infantili e tradiscono se stessi”[3].

Nessun movimento ecologico riuscirà mai a ritrovare l’armonia perduta con la Natura se non sentiamo di nuovo palpitare la Vita in noi e dietro ad ogni cosa intorno a noi, se non riusciamo a danzare la danza della vita. Se come bozzoli/boccioli non ci abbandoniamo alla nostra metamorfosi, e facciamo ritorno alla nostra Fonte: secondo la Cabalà, la nostra origine e divenire.

 

La conoscenza che trasforma

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“Chi mi farebbe vedere una rosa con la sua trasparenza e con il profumo così penetranti, se io non l’amassi? Chi mi farebbe scoprire il volto d’un essere fin nel sorriso o nelle lacrime del cuore, se io non l’amassi?”[4].

Nella “illuminazione” di Capra, la conoscenza che ne deriva nasce dall’unione – lo sposalizio sacro nel linguaggio cabalistico o la coniunctio oppositorum nel lessico junghiano – tra “grafici, diagrammi e teorie matematiche” e le sue visioni/immagini, sensazioni/emozioni: “cascate di energia cosmica, provenienti dello spazio esteriore […] suoni, ritmo e la danza cosmica di energia: la danza di Shiva, il Dio ballerino, adorato dagli indù”.

Ogni evoluzione comporta una coniunctio e gli opposti più difficili da ricongiungere sono proprio quelli che una volta integrati generano i più importanti e duratori conseguimenti: i grandi opposti archetipici Maschile/Femminile, la cui forza erotica rimane l’elemento più misterioso e sacro della nostra esistenza, possono essere considerati “l’alfabeto mitico” di ogni conoscenza: la forza che, diretta verso lo Sposo divino, la coscienza, presiede al matrimonio dell’uomo con se stesso.

L’amore, visto da questo punto di vista, non è un sentimento, nel senso in cui siamo abituati pensarlo, ma un grande processo naturale: è il principio di attrazione, di desiderio e di tensione tra gli opposti; il motore della nostra evoluzione e la forza propulsiva che conduce alla sintesi degli opposti. Per lo “sposo” (la coscienza), l’inconscio ricco di potenzialità latenti è una “sposa” allettante: pura forza vitale e un crogiolo di informazioni nel senso più ampio del termine: informazioni vive e dinamiche che non solo “informano” ma forgiano l’essere umano dall’interno. Questa conoscenza, secondo la Cabalà, non solo guarisce colui che conosce, ma lo trasforma a poco a poco “in luce”.

L’illuminazione non è altro che l’unione con il femminile profondo, il nostro “cosmo interiore”, che ci apre alla conoscenza naturale del Cosmo esteriore in quanto sono ambedue i poli di una stessa realtà. Questa conoscenza del segreto che si trova negli abissi più profondi di noi stessi è la più struggente ed elevata esperienza d’amore. Conoscenza-amore che non potrà mai essere definita come una conoscenza nel senso intellettuale del termine, si tratta piuttosto di un evento soggettivo: l’emersione della coscienza nella quale l’oggetto di conoscenza viene così pienamente assimilato da formare un tutt’uno con il conoscente. È conoscenza che non richiede sforzo di memorizzazione perché riguarda qualcosa che già esisteva potenzialmente e che giaceva dormiente in ogni nostra cellula. Non possiamo, in questo caso, parlare di memoria nel senso comune del termine, ma di qualcosa come di una “memoria cellulare” che viene, come dire… “risvegliata”[5].

È attraverso questo incontro di ogni essere umano con la “sposa delle profondità” che possiamo fare ritorno nel giardino dell’Eden, il “giardino del godimento”, e provare l’indescrivibile piacere e l’ebbrezza di esistere, prima sconosciute. Da questo godimento nasce un “figlio” nuovo, il figlio di quel piacere misterioso che pervade il nuovo stato dell’essere: un altro modo di sentire, dotato di una tale carica vitale da fare vacillare le fondamenta di due elementi prima estranei l’uno all’altro, e che, unendosi, “spiccano il volo”: il passaggio ad uno stato soggettivo totalmente diverso. Secondo la Cabalà l’uomo è ontologicamente creato per vivere attraverso infinite trasformazioni questo misterioso evento naturale: ri-nascere attraverso un altro ordine di parto, quello della sua interiorità.

 

Va verso di te

A tutti noi Dio[6] chiede ciò che ha ordinato ad Abramo: “va verso di te”. Nel momento in cui arriva questa “chiamata” ognuno di noi è in realtà tragicamente solo, ma ancora più tragico sarà non rispondere all’appello. Andare verso se stessi significa trovare la forza di porsi le domande cruciali dell’esistenza, quelle più difficili, non solo quelle che provengono dell’ego (i nostri “chi?” abituali). Domande che ci rimettono “in carreggiata” ed in contatto con quella forza nascosta che sottende tutta l’esistenza, forza che ci muove in direzione del superamento di noi stessi, così come ci conoscevamo (il nostro ego). È questo Il vero ESODO ̶ l’archetipo della evasione ̶ l’unico percorso di uscita del deserto della schiavitù. Questa fuga dal deserto interiore verso la “Terra promessa” è archetipicamente simbolizzata dalla grande avventura del popolo ebraico.

Se non ascoltiamo la chiamata o ci rifiutiamo di intraprendere questa via di individuazione/verticalizzazione fino alle sue ultime conseguenze, le nostre potenzialità di crescita interiore procederanno inconsciamente, ma nel percorso inverso: cresceranno dentro di noi come un corpo estraneo e maligno: una crescita all’incontrario, pericolosa e distruttiva, che anziché sanare la personalità finisce col provocare ulteriori sofferenze. Durante questo lungo e tormentato cammino, piacere e dolore divengono i nostri compagni di viaggio e fattori determinanti di conoscenza e rivelazioni.

 

La maschera o la tunica di luce
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Non possiamo aprire le finestre al mondo se non spalanchiamo prima di tutto i nostri confini interiori. Solo allora possiamo scorgere un’altra luce che illumina una realtà che è totalmente nuova. Luce che si spegne quando il nostro sguardo si volge sempre più annebbiato su un mondo rassicurante e prevedibile fatto di mattoni e cemento.

La condizione di caduta, rappresentata dagli ebrei nel deserto egiziano prima dell’Esodo, è una condizione esistenziale senza tempo che appartiene anche all’uomo moderno, definito in termini cabalistici “costruttore di mattoni”. Anziché andare verso l’estasi della propria realizzazione nell’unione con la “madre delle profondità”, l’uomo del deserto “costruisce mattoni” e ciò significa una ricerca perenne di una sorta di beatitudine nelle conquiste esteriori: nell’“immagine” di se stesso, nel look, nel consumo sfrenato, nella veste professionale, nelle banalità condivise. “Costruirsi un’immagine” (i mattoni) appartiene al mondo dell’inconsapevolezza; è la sostituzione narcisistica di ciò che ogni uomo è chiamato a conquistare interiormente: il suo Nome segreto, in rapporto al quale, il nome al quale rispondiamo non indica che la nostra maschera sociale. “Persona”, come la definisce Jung, che assume la propria dimensione umana, nel senso più elevato di questo termine, solamente quando entra in risonanza con “il seme”, il germe di vita sul quale è modellata la propria veste essenziale. Nella Cabalà si parla di “un suono fondamentale che viene dal Verbo” e che scolpisce ogni essere vivente partendo dalla sua radice ontologica. L’uomo che, come Narciso, persegue l’immagine esterna anziché la propria identità interiore, non può che fabbricare mattoni. L’uomo cosciente di se stesso e artefice del proprio nome è “pietra”.

 

Le piaghe

Nel momento in cui arriva la prima delle dieci piaghe dell’Egitto – le acque cambiate in sangue; le rane; il parassita; l’insetto; la peste; la lebbra; le grandine; la cavalletta; le tenebre… – ognuna simbolizzando una differente fase del processo di trasformazione – inizia per gli ebrei un lento processo di distinzione tra ciò che è compiuto, rappresentato dalla terra promessa verso la quale essi tendono, e ciò che resta ancora nelle tenebre dell’incoscienza, rappresentato dagli egiziani. Alla fine della descrizione di ogni piaga, nel libro sacro viene ripetuta la frase: “…e il cuore del faraone s’indurì sempre di più come aveva preannunciato il Dio”. Questo “indurimento del cuore del faraone” sta per il percorso di liberazione degli ebrei come l’avversario di ogni combattente nelle lotte orientali. Secondo il principio delle arti marziali, l’avversario non è mai il nemico, ma è colui che si oppone al lottatore perché costui, dinanzi a tale resistenza, sprigioni una nuova forza. È lo stesso principio dei lavori corporali eseguiti dai “facilitatori” durante le sedute di respirazione olotropica che tendono anch’essi all’intensificazione temporanea dei sintomi, il che porta successivamente alla loro dissoluzione.

Più arido è il nostro deserto, più intensa sarà la nostra sete, il nostro furore e la nostra passione. Così avviene nel percorso di individuazione/iniziazione: siamo chiamati alla trasformazione e nello stesso tempo mantenuti forzatamente nei nostri deserti; spinti verso una nuova nascita ma trattenuti nell’oscuro passaggio verso la luce: nati per la libertà, ma tenuti prigionieri. Ciascuna delle piaghe ci sprofonderà sempre di più nell’abisso che separa l’egiziano in noi dall’ebreo che anche noi siamo e dalla Terra promessa: la rinascita o lo “sposalizio” con il femminile profondo potrà avvenire solo alla fine di questo drastico processo di separazione di ciò che era prima oscuramente confuso.

La tradizione biblica considera il primogenito di ogni creatura come “l’immagine del Dio invisibile” ed è attraverso la decima e ultima piaga – la morte dei figli primogeniti e dei primogeniti degli animali – che viene raggiunto il momento clou dell’opposizione, il punto di rottura. È il momento nel quale le due forze opposte si scontrano, momento che implica di fatto il salto nell’ignoto ed una morte. Ogni essere umano può fare esperienza di questa morte e della propria ri-nascita nell’attimo in cui il buio dell’incoscienza si squarcia per lasciar scaturire la luce.

 

Giona

Agli scribi e farisei, gli intellettuali dell’epoca, che gli chiedevano di fare miracoli, Gesù rispose: “Non ve ne saranno dati altri, se non quello di Giona. Come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra…”[7].

Il profeta Giona, disobbediente alla chiamata divina, anziché andare verso Ninive, la capitale nemica degli Assiri, per annunciare la parola di Dio, s’imbarca per Tarsis, sottraendosi così alla propria missione. Sopraggiunge una tempesta, i flutti si sollevano insidiosi, mettendo a rischio la nave che minaccia d’affondare. I compagni d’imbarcazione terrorizzati interrogano i cieli e scoprono che era proprio lui, Giona, il viaggiatore sconosciuto, la causa e l’origine del dramma. Lo gettano in mare ed un grande pesce lo inghiotte. Giona rimane nel ventre dell’animale tre giorni e tre notti, ma quando finalmente si ricorda del destino assegnatogli da Dio, il grande pesce lo rigetta sulla terra ferma.

Lo stato di Giona nella nave è la desertica condizione dell’auto tradimento, la condizione di chi non ha ascoltato la chiamata verso il proprio mondo interiore. “Volgere lo sguardo verso l’alto e ricordarsi del destino assegnatogli da Dio” significa scorgere finalmente ciò che va oltre la prigione. Non solo percepire la propria appartenenza ad un Insieme molto più ampio, ma anche pensare in termini d’insieme, senza doversi soffermare sui singoli aspetti personali. Solo allora possiamo comprendere che ciò che appare assurdo o contradittorio può essere semplicemente un frammento temporaneo che al momento non siamo ancora in grado di integrare in una dimensione più vasta e rendere coerente e comprensibile. Quando per un breve instante l’uomo del deserto “alza gli occhi al cielo” e scorge qualcos’altro sopra la sua testa, inizia per lui la vita travagliata e insidiosa del “mutante”. Nelle parole di George Bataille: “Non dimenticherò mai ciò che di violento e di meraviglioso si lega alla volontà di aprire gli occhi, di guardare in faccia quel che accade, ciò che è. Ed io non conoscerei ciò che accade se non sapessi nulla del piacere estremo, se non sapessi nulla dell’estremo dolore”[8].

Tragedia e gloria dell’essere umano derivano dal fatto di potersi identificare contemporaneamente con gli aspetti contrastanti dell’esistenza, la forma esteriore e la vita (interiore). La testa fra le nuvole e i piedi affondati nel fango della vita quotidiana, gli occhi chiusi che non vedono la bellezza del mondo, è questa la condizione dell’uomo del deserto: drammaticamente sospeso tra il cielo e la terra, in costante oscillazione tra gli opposti, è egli stesso, lacerato, un campo di battaglia che ci ricorda il Kurukshetra, quando Arjuna proprio per la sua purezza e nobiltà d’animo ne esce vincitore con l’aiuto di Krishna che gli rivela gli insegnamenti della Bhagavad Gita.

Come afferma Albert Camus, la felicità va ricercata alle radici dell’infelicità. E Jung nel suo Libro Rosso ci ricorda che è nel fondo della sofferenza che un uomo si risveglia… al sorgere dell’Eterno in sé. E ciò accade proprio nell’attimo stesso in cui le tenebre preannunciano l’emergere dall’abisso e la rinascita. In questo momento la tentazione della regressione è sentita più fortemente, ma nella misura in cui ne siamo consapevoli e prendiamo parte attiva in questo mutamento la sofferenza viene sostenuta con dignità e l’esito sarà fruttuoso.

Il dramma della creazione e la storia della rivelazione ci vengono tramandati da millenni nell’intento di offrirci il “libretto di istruzioni” per operare l’integrazione degli opposti: luce e tenebre, corpo e anima, libertà e prigionia e in particolare Maschile e Femminile che, in un certo senso li raccoglie e li sintetizza. È attraverso questa sintesi che ciò che è invisibile emerge nel mondo visibile, attraverso il pensiero, l’immaginazione o l’opera creativa. E noi possiamo allora vedere e conoscere.

 

Il riscatto

In tutti i campi del sapere, oggi, la scienza attinge a valori che hanno attinenza con “l’esodo dal deserto” e con la trascendenza: la materia inerte inizia a rivelarci i suoi segreti; la matematica e la fisica moderna sconfinano con la mistica e con la metafisica; la medicina sembra non poter più ignorare il grande Mistero della morte e della nascita e la psichiatria si interroga sempre di più circa la vera natura delle malattie mentali. Stiamo iniziando ad afferrare un segreto antico e nuovissimo allo stesso tempo, che si integra con la scienza più moderna in un viaggio affascinante nel nostro profondo sentire.

Una frase del grande Maestro di vita mi fa molto riflettere: “Hai fatto il tuo dovere” dice Gesù, “sei un servo inutile”[9]. Ma cosa c’è oltre il nostro dovere? Forse, alla luce di quanto detto finora: l’esodo dal deserto ed il riscatto a caro prezzo della nostra presenza in questo mondo.

Scrive Camus: “…anch’io come tutti, avevo letto dei racconti sui giornali. Ma certo esistevano libri speciali che non ho mai avuto la curiosità di consultare; in essi forse avrei trovato racconti di evasione. Avrei saputo che almeno in un caso la ruota si era fermata, che in quel precipitare irresistibile, una sola volta, il caso e la fortuna avevano cambiato qualcosa. Una volta! In fondo credo questo mi sarebbe bastato: il mio cuore avrebbe fatto il resto”[10].

Se una sola volta viviamo ciò che archetipicamente ci viene descritto come “l’Esodo degli ebrei dal deserto”, o dalla prigione del nostro deserto/ego, se “anneghiamo” e veniamo finalmente espulsi dal ventre del grande pesce, conosciamo l’infinito e forse, per un attimo, abbiamo intravisto la Luce. In questo travagliato viaggio agli albori dell’anima, è come se piantassimo le nostre radici nel suolo fertile e potessimo finalmente germogliare.

 

 

 

[1] Capra, F., O Tao da Fisica, Editora Cultrix, Sao Paulo, 1983, p. 13 (T.d.A.).

[2] La stessa parola “sapienza” viene dal latino sàpere, che significa “aver sapore”.

[3] Souzenelle. A., L’Egitto interiore. Le dieci piaghe dell’anima, Servitium editrice, Troina, 2007, p. 87.

 

[4] Ivi, p. 112.

[5] In ambito esoterico si ipotizza l’esistenza di una memoria “cellullare”. Gli scienziati indagano sull’argomento, ma ancora non sono arrivati ad accertarne l’esistenza. Oggi si parla di una memoria cellulare che potrebbe appartenere ad ogni tipo di organismo vivente, persino all’acqua.

 

[6] Dio nel senso descritto da Ken Wilber di “vertice archetipico della propria coscienza” o il Dio/Natura dei cabalisti.

[7] Matteo 12, 39-40.

 

 

[8] Bataille, G., L’erotismo, ES, Milano, 1997, p. 246.

[9] Luca 17, 10.

[10] Camus, A., Lo straniero, Omnibus Euroclub, p. 107.

Ambrosia, il nettare d’amore

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Ambrosia, il nettare d’amore

Voi servirete unicamente l’Eterno vostro D’; e Lui benedirà il vostro cibo e la vostra bevanda, e allontanerà da voi qualunque flagello (Es 23,25).

Qualsiasi offerta di una foglia, fiore, frutto o acqua fatta a me con devozione da un’anima pura Io l’accetto con amore (Krishna).

Anche gli dei mangiano
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Dal momento in cui un genitore offre per la prima volta qualcosa di dolce ad un bambino insieme ad un gesto di affetto, l’atto di mangiare viene impregnato di affettività ed il cibo si carica di significati che vanno molto al di là del nutrimento necessario alla nostra sopravvivenza, diventa ambrosia: il “nettare d’Amore”, veicolo dell’anima.

Ricordo che uno degli aspetti più rilevanti ed essenziali dei riti del candomblé, religione afro-brasiliana, era proprio l’offerta sull’altare del cibo prediletto dell’Orixà. In questo contesto religioso ogni divinità ha il Suo “menu” prediletto, cucinato dai fedeli con cura solenne, secondo il Suo appetito e ogni gesto viene vissuto intensamente nel suo profondo significato rituale/simbolico.

Nella nostra società dell’opulenza, oltre che da innumerevoli altri fattori, il cibo è ancora influenzato più o meno direttamente dalla dimensione celata dell’esistenza, così come dalla religione/spiritualità. “Noi siamo ciò che mangiamo”, afferma l’antica tradizione cinese, nella quale l’essere umano viene considerato nella sua totalità. Secondo l’antica medicina cinese il sapore e il colore degli alimenti sono anch’essi una forma di energia che in un certo senso ci trasforma e possiedono a loro volta una funzione di nutrimento che non è solo corporeo, ma animico e spirituale.

2Proviamo a osservare con attenzione una cerimonia religiosa, l’Eucarestia per esempio: l’evento originario si svolge intorno alla tavola, nella quale la figura centrale, il Cristo, condivide con i suoi apostoli erbe amare, pane azzimo e charoset[1]. Questo evento, che rappresenta il momento clou della salvezza nel cristianesimo, viene ritualizzato e rivissuto infinite volte fino ai nostri giorni durante la Santa Messa. Nel Medioevo, a tavola, i cristiani bevevano e mangiavano in modo rituale: cinque sorsi, ognuno per una ferita di Gesù, ed ogni boccone veniva diviso in quattro parti di cui tre per la Santissima Trinità e uno per la Vergine Maria, ecc. Secondo alcuni studi antropologici i rituali e le cerimonie delle principali religioni derivano ancora oggi da comportamenti osservati a tavola.

È comune a tutte le religioni considerare il cibo un dono del Dio o degli Dei e ne consegue che l’atto di mangiare non è mai un gesto qualsiasi, ma viene arricchito di numen e diviene atto solenne, un “sacra-mento”: atto sacro di ringraziamento e unione con l’Essere divino che ha donato all’uomo il cibo per nutrirlo, curarlo ed assicurarne la sopravvivenza. Un atto che è allo stesso tempo una celebrazione degli eventi fondamentali della vita – il sorgere e tramontare del sole, le varie fasi lunari, la semina e il raccolto, il mutare del tempo e delle stagioni – e deve rispondere alle esigenze spirituali di ogni religione, il cui principio di base è sempre improntato alla moderazione e alla gratitudine.

Le grandi religioni (Induismo, Buddhismo, Jainismo, in Oriente; Cristianesimo, Ebraismo e Islam, in Occidente ecc.) dedicano molta attenzione al cibo ed i divieti alimentari, così come le regole per consumare certi prodotti, uccidere (o non uccidere) gli animali nascono da una prospettiva di purificazione, redenzione e di integrazione dei due aspetti contrastanti della natura umana: lo spirito e la carne.

 

 “Non cucinerai il capretto nel latte di sua madre”

Nella letteratura sapienziale delle più svariate tradizioni viene messo in risalto il forte legame tra alimentazione e trascendenza, tra salute e spiritualità. “Benedirò il tuo pane e la tua acqua, rimuoverò da te ogni malattia”, dice Dio a Mosè nel libro dell’Esodo. Nella Cabalà[2], il nutrimento e l’atto stesso di mangiare è qualcosa degna di molta attenzione e assume un ruolo fondamentale all’interno della ritualistica religiosa. La tradizione cabalistica è ricca di insegnamenti che invitano il fedele a tenere in equilibrio le dimensioni fisica e spirituale dell’esistenza attraverso la cura del corpo, la dieta e la sessualità.
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Il rapporto tra cibo e religione, così come viene descritto nei libri sacri, è un tema complesso e a volte di difficile comprensione. Nel libro del Levitico (Antico Testamento) c’è una lunga analisi dei cibi vietati perché “blasfemi” e Re David, nei Salmi, offre importanti insegnamenti per una alimentazione sana e spiritualmente corretta.

La religione ebraica richiede che ogni pasto venga preceduto e seguito da benedizioni particolari, adeguate al tipo di cibo che si sta consumando e l’osservanza di una serie di complesse regole alimentari chiamate kashrut: la macellazione rituale, il dissanguamento dell’animale ucciso e la proibizione del consumo della carne di diversi animali. Una norma in particolare proibiva di mischiare carne e latte ed era ritenuta così importante da far parte originariamente dei dieci comandamenti: il consumo della carne va tenuto strettamente separato da quello dei latticini, così come le pentole e gli utensili usati per cucinarli. Questa regola si basa sul seguente precetto della Torà: “Non cucinerai il capretto nel latte di sua madre”.

Nell’islamismo la parola Ḥalāl, parola araba che significa “lecito”, si riferisce in Occidente principalmente al cibo preparato conforme alla legge islamica, in contrasto a ciò che è “proibito” (harām). Anche in questo caso la carne, per poter essere consumata dai fedeli, deve provenire da un animale macellato secondo i precetti tradizionali descritti nella Sunna.

Nel buddhismo è raccomandata l’astinenza dalle carni ma il consumo viene tollerato nel caso in cui chi la mangia non ha partecipato all’uccisione dell’animale. L’astensione dalla carne, anche se non viene esplicitamente prescritta nel buddhismo, è considerata un valore finalizzato alla protezione della Vita. “Gli animali uccidono solo quando hanno fame, e questo è un atteggiamento assai diverso da quello degli uomini, che sopprimono milioni di animali solo in nome del profitto”, afferma il XIV Dalai Lama.

I giainisti[3] a loro volta condannano drasticamente l’uccisione di qualsiasi animale e seguono una dieta rigorosamente vegetariana. Alcune sette jainiste consigliano l’utilizzo di scope per “aprirsi il cammino” ed evitare la funesta possibilità di uccidere un solo minuscolo insetto.
I sacerdoti giainisti quando camminano nelle campagne sono preceduti da accompagnatori che scacciano via formiche, ragni ecc. per evitare così che questi vengano calpestati o uccisi. Bocca e naso vengono coperti con mascherine per non inspirare, quindi uccidere, mosche e zanzare.

Nella religione cristiana, a differenza di quella ebraica e islamica, induista o buddhista non esistono tabù alimentari se non l’invito ad evitare gli eccessi e i cosiddetti “peccati di gola”. L’unico vero divieto è quello di consumare carne durante il venerdì santo. In alcune circostanze particolari, come il mercoledì delle ceneri ed il venerdì santo, viene rispettata “la regola del digiuno”. L’insegnamento di Gesù Cristo, a questo proposito, si discosta dalla tradizione delle altre religioni: “Non è ciò che entra nella bocca che contamina l’uomo; ma è quel che esce dalla bocca che contamina l’uomo […] Non capite che tutto ciò che entra nella bocca se ne va nel ventre, e viene espulso nella fogna? Ma le cose che escono dalla bocca procedono dal cuore; sono esse che contaminano l’uomo”. (Mt 15,11; Mt 15,17-20).

 Anche in assenza di tabù alimentari, la passione per il cibo (gola) per i cristiani è fino ad oggi considerata uno dei sette vizi capitali: un’occasione di peccaminoso abbandono ai piaceri dei sensi. Per i monaci, per esempio, la gola era un vero e proprio ostacolo alla redenzione ed il digiuno la regola per purificarsi e raggiungere la salvezza.
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Negli ultimi anni le immigrazioni sempre più massicce dovute a conflitti religiosi e sociopolitici, guerre o calamità climatiche hanno portato in superficie una questione spinosa con la quale la nostra moderna società è chiamata a confrontarsi: quella di preservare, o meno, le tradizioni alimentari di ogni religione, senza generare ulteriori conflitti. Nell’attuale contesto multiculturale/multireligioso le differenti convinzioni rispetto al cibo – come per esempio il trattamento degli animali da macello e le pressanti richieste di adeguamento della nostra produzione alimentare ai precetti delle diverse confessioni religiose – ha attribuito alla macellazione rituale un peso e un significato sconosciuti fino a poco tempo fa[4].

 

Carnivori contro vegetariani: il “paradosso carne”

Siamo costantemente sottoposti ad un bombardamento di informazioni su ciò che fa bene o fa male alla salute, sugli alimenti “buoni” e “cattivi”, sui rischi che corriamo scegliendo o meno certi prodotti. Non c’è quindi da meravigliarsi che il cibo possa fare anche paura e che il nostro rapporto con l’alimentazione si sia fatto sempre più complesso e problematico. Recentemente è stato segnalato dagli psicologi e specialisti del settore un nuovo disturbo definito ortoressia nervosa (ON)[5] per descrivere l’ossessione patologica per i cibi “puri”, con conseguenti limitazioni, anche sostanziali, della dieta. Il film Hungry Hearts del regista italiano Saverio Costanzo affronta questo tema controverso nel suo aspetto delicato della dieta infantile.

Il cibo cattura le nostre proiezioni, si carica di affettività e di ambivalenze, di paure e desideri, di giudizi spietati. Così anche l’appetito, come la nostra anima, può essere “purificato” dalla malvagità e dalla sofisticazione del mondo moderno, dal Peccato e anche dalla Morte. Pullulano diete alternative che vanno dal vegetarismo, al veganismo, al crudismo, alla dieta paleolitica (che tenta di imitare l’alimentazione dei nostri antenati), al fruttarismo (una dieta radicale in cui, in alcuni casi, pur di non arrecare danni alla natura, la frutta viene consumata solo se caduta naturalmente dell’albero) e ad altre numerose diete restrittive più o meno “fondamentaliste”. Così vissuto, come elemento che sentenzia colpe e virtù, dispensa lodi e punizioni, il cibo richiama emozioni profonde, definisce verdetti, valori, aspirazioni e si fa veicolo di messaggi paradossali: il desiderio di “ascesi”, di spiritualità, di pulizia, di autenticità, di rifiuto di questo mondo sporco, inquinato, ecc.
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La recente dichiarazione dell’Oms sulla pericolosità della carne ha suscitato svariate reazioni e si è estremizzata sempre di più, al punto che nel web si vedono scritte di ogni genere più o meno aggressive pro o contro la carne. Questa contrapposizione tra onnivori da una parte e vegetariani/vegani dall’altra, negli ultimi anni, ha ampiamente superato la sana dialettica per giungere verso una vera e propria battaglia ideologica, trasversale, senza frontiere né esclusione di colpi. In particolare colpisce l’immagine di una fettina di bacon che fa il “nodo”, come il nastro simbolo della lotta contro il femminicidio, con sotto la scritta: “io sto con la pancetta” così come altre immagini più o meno spietate, ma di segno diverso: teste mozzate e animali squartati e appesi nei mattatoi. Tutta questa polemica ripropone, con un linguaggio nuovo, l’antichissimo antagonismo – puro/impuro, peccato/virtù, proprio come se qualcosa che la nostra civiltà sembrava aver gettato definitivamente fuori dalla porta rientrasse puntualmente dalla finestra.

Dalla prospettiva carnivora il rifiuto di mangiare carne assume spesso connotati “patologici”: è conseguenza della paura (quale paura?) e soprattutto dalla rimozione, nel vegetariano, della propria aggressività. Dall’altro fronte, i vegetariani/vegani – che spesso usano l’espressione “mangiatori di cadaveri” riferendosi ai carnivori, espressione che evoca pensieri di morte e di uccisione – considerano il cibarsi di carne come qualcosa di paradossale e problematico, una dissonanza cognitiva nata dalla profonda scissione: è condiviso da tutti che uccidere gli animali sia qualcosa di riprovevole ed esistono molte leggi per “la protezione e tutela degli animali”, ma dinanzi al piatto, la deliziosa bistecca viene immediatamente scissa dall’animale morto ed il carnivoro la può mangiare in tutta tranquillità; ma cosa accade a livello inconscio? Oggi si parla di una vera e propria contraddizione intrinseca dei carnivori, definita il “paradosso carne”[6]: come mai l’uomo che prova amore verso gli animali riesce a mangiare la carne che prevede l’uccisione di questi stessi animali?

Seguendo questo pensiero, la rimozione della “colpa” non è sempre efficace e allora chi mangia carne proietta dunque nell’altro, colui che la carne non la mangia, l’ombra del paradosso e ha spesso l’impressione d’essere da questo moralmente criticato. Il vegetariano genera quindi nei carnivori un senso di colpa, che viene a sua volta deviato, considerando “fanatici o patologici” quelli che lo hanno suscitato.

Per Lev Tolstoj il vegetarismo non è soltanto la lotta contro l’aggressività umana, ma è anche il primo gradino di un progresso spirituale. Il vegetarismo etico o “la dieta senza uccisione” è il primo passo, secondo Lev Tolstoj – la cui conversione al vegetarismo avvenne all’età di 47 anni, per motivi etici –  verso un più alto livello di coscienza, di nonviolenza, di fratellanza. Il primo gradino infatti è il titolo di un suo saggio sul mangiar carne e sui macelli (Tolstoj, 1891), nel quale il grande scrittore russo descrive il suo vissuto emotivo e tutta la sua indignazione nell’assistere all’uccisione di un maiale. Anche il Mahatma Gandhi esprime lo stesso pensiero: “Sento che il nostro progresso spirituale ci porterà a smettere, prima o poi, di uccidere altre creature per soddisfare i nostri bisogni materiali” (Mahatma Gandhi 1869-1948).

All’occhio attento dello psicologo non sfuggono però alcuni eccessi tipici della scelta alimentare vegetariana/vegana, eccessi che vanno da un marcato timore di contaminazioni, al dogmatismo, al radicalismo e al proselitismo, proprio come accade con le religioni. La stessa scelta può anche essere vista nell’ottica di un’identificazione inconscia con la debolezza e vulnerabilità degli animali, “vittime indifese di questo mondo spietato” o del rifiuto della società “carnivora” ed insensibile alla vita: una scelta difensiva o una ribellione verso un mondo sempre più “contaminato”. Se è vero che il vegetariano ha un conto in sospeso con la fragilità e con l’aggressività, possiamo ipotizzare che l’integrazione tra la sua coscienza etica e l’inconscio potrebbe sollevarlo dalla rigida regola alimentare e renderlo libero di fare una “scelta” alimentare più consapevole e forse meno rigida.

Per chi convive con gli animali e li ama, il rifiuto di mangiarli acquisisce un diverso significato ed è considerato molto più “sano” e adeguato dal punto di vista psicologico dei paradossi che caratterizzano i carnivori.

La signora Teresa, una donna di mezza età, di modesta condizione sociale, mi racconta che un giorno, di ritorno a casa dopo una giornata di lavoro, ha sentito nell’aria un particolare odore che proveniva da una pirofila fumante: era il gatto di casa cucinato da suo marito, che lo stava mangiando tranquillamente, dinanzi al suo sguardo attonito. Non sono mai riuscita a trovare una definizione psicologica per un comportamento così dis-umano.

Il discorso si fa più complesso se parliamo dei vegani, la cui scelta alimentare molto più restrittiva rispetto a quella vegetariana si fonda su una filosofia di vita biocentrica, che ricerca l’armonia con la Natura ed aborrisce l’uccisione e lo sfruttamento degli animali in qualsiasi forma: nutrimento, mungitura o abbigliamento. Uno stile di vita radicale, dalle drastiche conseguenze dal punto di vista economico-sociale perché in contrasto con un sistema produttivo al quale l’alimentazione di origine animale è indispensabile. Secondo una visione psicologica di tipo normalizzante, il vegetarianismo viene considerato “sospetto” e il veganismo indubbiamente “patologico”. In questo caso viene utilizzato un vocabolario stigmatizzante nei confronti di chi si rifiuta di mangiare animali, un vocabolario che potrebbe essere definito “vegefobico”. L’astensione dagli alimenti di origine animale viene considerata secondo questa visione come un vero e proprio “sintomo di copertura”: un modo per mascherare un disordine alimentare più profondo come l’anoressia, e così via. In questa ottica i vegani potrebbero essere annoverati tra coloro che sono affetti da patologie alimentari più o meno gravi.

I sogni di Romeo[7], 49 anni, hanno in qualche modo annunciato la sua imminente “scelta” di una alimentazione vegana: una fabbrica di dolci a conduzione familiare, divisa in due parti: la produzione (con gli operai che si lamentano) ed il settore di vendite (dove gli acquirenti sono persone grottesche che gli ricordano i film di Fellini). C’è un grande tubo dove passa il dolciume che poi esce nella parte commerciale per essere venduto e consumato. Romeo associa questo grande tubo al pene ed ai rapporti sessuali (l’uomo ha difficoltà a provare un orgasmo sessuale, così come il Piacere in generale).

Si trova nella spiaggia al buio, il cielo è nero, il mare nero agitato. C’è un gruppo di ragazze bionde bellissime in un luogo recintato. Su di loro c’è un raggio di sole. Poi improvvisamente si alzano tante lastre isolanti davanti al mare impedendone l’acceso.

Un maggiore approfondimento esulerebbe dagli spazi e dagli scopi di questo testo, ma vorrei sottolineare due aspetti che vengono spesso trascurati in questi dibattiti: prima di tutto la capacità della persona che fa questo tipo di scelta alimentare di sentire e di godere, ma soprattutto di “meritare il Piacere”, in questo caso il Piacere del cibo. Secondo, ma non meno importante, è il rapporto della persona con il principio Femminile che rappresenta il Nutrimento per eccellenza, incarnato nella madre personale e nella Grande Madre Natura.

L’uomo predatore versus l’uomo ecologico

Un’altra corrente di pensiero, più filosofica che psicologica, al contrario dei vegefobici, vede la questione da un punto di vista più ampio ed evoluzionistico: considera i vegani più consapevoli e più adatti alla conservazione della specie e quindi gli esseri umani più all’avanguardia in tema di alimentazione. Nel vegano, secondo questa visione il concetto di “sopravvivenza” è stato ampliato e rielaborato; gli istinti primordiali si sono evoluti ed innalzati verso una sfera più armoniosa e innocua per l’ambiente. Dal punto di vista vegano, il termine “sopravvivenza” va molto al di là del senso di continuità della propria vita e della stessa vita della specie umana e abbraccia l’intero ecosistema Terra. Il vegetariano in questa ottica sarebbe allora l’anello di congiunzione tra l’uomo predatore/cacciatore e l’uomo ecologico, rappresentato attualmente dal vegano.
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Il punto di partenza della filosofia vegetariana/vegana e della psicologia di chi abbraccia questa alimentazione ha a che fare con l’abbattimento di due pregiudizi in particolare: lo specismo (la credenza nella superiorità di una specie – la nostra – sulle altre) e l’omocentrismo (la convinzione di essere al centro dell’universo e la nostra presunta superiorità rispetto alle altre specie, di conseguenza il potere di fare di loro ciò che vogliamo). Vegetariani e vegani non darebbero più per scontato questi principi e manifesterebbero, attraverso le loro scelte alimentari, tutto il loro rispetto per l’ordine naturale degli esseri e per la Natura.

Considerando i numerosi studi che negli ultimi anni hanno affrontato la questione della neurobiologia delle piante – che avrebbero coscienza di sé e sensibilità al dolore, che sarebbero in grado di comunicare e persino di apprendere – il discorso potrebbe allargarsi (pericolosamente) e qualcuno potrebbe arrivare persino a ritenere “colpevole” la stessa alimentazione vegetariana in quanto gli scienziati moderni sembrano concordi nell’affermare che il profumo di erba tagliata sarebbe l’equivalente chimico di un grido di dolore, il grido di dolore del vegetale!
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La fame di Vita

Nella tradizione cabalistica Dio “D-O”, o il Boré[8] non viene inteso nel suo solito significato religioso di un essere onnipotente da adorare e obbedire per essere ricompensati, ma è identificato con la Natura in senso ampio, considerata come una Unità. Secondo questa tradizione sapienziale l’evoluzione umana è l’evoluzione dei nostri desideri (o del nutrimento al quale aneliamo), desideri che si elevano da una dimensione di concretezza, come la sopravvivenza immediata, il cibo, la casa ecc. verso desideri e aspirazioni sempre più astratte, impalpabili come l’Armonia, l’Arte o la Giustizia. “Quale è la tua fame?” significa “Qual è la tua essenza?”. La fame siamo noi, abbiamo fame di ciò che riconosciamo come affine a noi stessi, di questo vogliamo essere nutriti. Anche per Abraham Maslow – esponente di spicco della psicologia umanistica, noto per aver ideato la cosiddetta “piramide di Maslow” – “quando parliamo dei ‘bisogni’ degli esseri umani, parliamo dell’essenza della loro vita”.

La fame/desiderio, in un senso più profondo, è l’anelito verso la Vita e il motore propulsivo di ogni nostra azione: ballare, scrivere, recitare… abbiamo fame di letteratura, di musica, di cinema… di verità, di poesia, di un altro essere umano. Per Jacques Lacan, ogni desiderio è sempre desiderio dell’altro ed ogni domanda è sempre una domanda d’amore. Visto da questa ottica tutti gli appetiti possono essere collegati e possono trasformarsi: possono evolvere dalla fame di divorare o possedere il mondo intero alla fame di essere Tutto ciò che esiste. Nella scuola del desiderio lo stato supremo è questa fame di Vita, Fame di ciò che trascende tutti i confini tra noi e gli altri, Fame d’Amore, di Unione e di Appartenenza.

 

 

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[1] Un impasto di frutta, agnello arrostito e vino.

[2] La tradizione esoterica della mistica ebraica diretta all’interpretazione simbolica della Bibbia nel suo significato più intimo e segreto.

[3] È un’antica filosofia/religione basata sulla nonviolenza e ispirata agli insegnamenti di Mahavira (559-527 a.C.).

[4] A.G. Chizzoniti e M. Tallacchini, Cibo e religione, Libellula Edizioni, Roma, 2012.

 

[5] Da orthos, corretto, e orexis, appetito.

[6] Da una ricerca all’Università di Pennsylvania e Stanford, pubblicata sul Social Psychological and Personality Science.

 

[7] Il nome è naturalmente di fantasia, l’età è quella reale.

[8] Il nome di Dio per un cabalista è troppo potente per essere pronunciato.

Respirazione olotropica

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Strategia terapeutica
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Nella nostra cultura, dominata dal paradigma scientifico, la  ha perso quella “sacralità” caratteristica delle varie tradizioni spirituali e sciamaniche ed è stata ridotta a semplice funzione fisiologica, perdendo così il suo significato di connessione con la psiche e lo spirito. Soltanto negli ultimi decenni i “terapeuti” occidentali hanno riscoperto il potenziale terapeutico della  e sviluppato tecniche che la utilizzano secondo diverse modalità.

La strategia olotropica di “” o di evoluzione della coscienza, si basa sul principio fondamentale che i “sintomi” sia emotivi che psicosomatici rappresentino un tentativo spontaneo dell’organismo di guarire se stesso, superare i propri traumi e raggiungere uno stato di maggior equilibrio. Principio questo che la terapia olotropica condivide con l’omeopatia nella tendenza all’attivazione e intensificazione temporanea dei sintomi presenti ed esteriorizzazione di quelli latenti, il che porta successivamente alla loro dissoluzione. Il sintomo viene visto quindi come un’opportunità di cambiamento, una tendenza naturale che la terapia dovrebbe assecondare, diversamente da quanto avviene nella pratica tradizionale, focalizzata sopratutto sulla sua soppressione.

Nel metodo “terapeutico” sviluppato da Grof, attraverso l’utilizzo di mezzi naturali come la , la musica evocativa e tecniche di lavoro sul corpo, vengono indotti potenti stati non ordinari di coscienza che portano alla rimozione dei blocchi bioenergetici e alla liberazione delle energie fisiche ed emotive represse. La risoluzione del trauma e il cambiamento che ne deriva, può significare una vera e propria trasformazione della personalità e scaturisce da vissuti profondi che spesso sfuggono alla comprensione razionale. Tale risoluzione può avvenire a livello biografico, essere cioè connessa ad esperienze e traumi infantili o all’emergenza di materiale perinatale e transpersonale.

Molte persone, in un momento particolare della loro esistenza, si rendono conto di una certa “ristrettezza di vivere”, si accorgono di agire ed esprimersi ad un livello molto inferiore alle loro potenzialità creative ed esistenziali. Questa consapevolezza porta a un’inversione di rotta nei processi intrapsichici, al ritiro delle energie psichiche investite nel mondo esterno e alla loro “introversione”: investimento nel mondo interiore alla ricerca di qualcosa che è andato perduto. Jung lo considera un processo naturale, tipico della seconda metà della vita. A questo punto, incominciano ad affiorare alla coscienza contenuti inconsci investiti di forte carica emotiva che possono interferire più o meno sul vivere quotidiano e che possono investire solo alcuni settori della vita come le relazioni, il lavoro o la sessualità, fino ad una interferenza massiccia su tutti gli aspetti dell’esistenza o sullo stesso rapporto con la realtà.

Le proporzioni di questa interferenza sono relazionate con il momento in cui sono avvenuti i traumi più importanti nella vita della persona e determinano se il processo raggiungerà proporzioni nevrotiche (traumi più tardivi nell’infanzia) o psicotiche (traumi legati a stadi più precoci). Questo irrompere di materiale inconscio provoca una crisi che può rappresentare un’occasione di risoluzione dei traumi stessi e di trasformazione psicologica.

La musica

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La musica evocativa da sempre ha avuto un ruolo molto importante nell’induzione della trance. I battiti monotoni dei tamburi e i canti hanno da sempre accompagnato i riti iniziatici e propiziatori in varie parti del mondo. Anche nella terapia olotropica la musica ha un ruolo fondamentale. Deve essere potente e evocativa, di preferenza musica di ottima qualità artistica, con pochi riferimenti concreti (i brani vocali debbono essere in lingue sconosciute). Vengono evitate musiche dissonanti e ansiogene e la caratteristica comune è quella di essere sconosciute, nella maggior parte dei casi, al gruppo dei respiranti. La nostra “colonna sonora” ha la durata di tre ore ed è composta da musiche appartenenti a vari generi: etniche, sacre, strumentali, “suoni della natura”, musiche “new age”, canti orientali, etc.

L’utilizzo della musica nel nostro contesto è molto diverso dall’ascolto compito e intellettualizzato a cui siamo abituati nelle sale da concerto o teatri, è una modalità di ascolto più libera, coinvolgente e sconvolgente, che assomiglia di più a quella di un concerto rock. E’ importante arrendersi completamente al ritmo della musica, lasciarla “entrare dentro” e reagire in modo libero e spontaneo, permettendo al proprio organismo di esprimere tutto ciò che la musica catalizza dentro di sé, fare “uscire fuori”, sia dal punto di vista fisico che emotivo, grida, risate, canti, versi di neonati o di animali, movimenti rituali, mormorii che giungono fino al parlare una lingua sconosciuta etc. Ma anche mimiche esagerate, tremori, movenze erotiche, contorsioni del corpo e del volto etc. In questo contesto la musica esercita diverse importanti funzioni: aiuta ad aprire le porte dell’inconscio, mobilitando le emozioni legate a ricordi assopiti e traumi rimossi, facilitando così la loro manifestazione e approfondendo il processo di guarigione; favorisce una forma di “insight” dinamica ed estetica e non ultimo copre i rumori (singhiozzi, pianto, grida) prodotti dai partecipanti durante l’esperienza.

La seduta si apre con musiche dinamiche, scorrevoli e prosegue durante la prima ora con musiche “celebrative”, aumentando poi sempre di intensità verso brani che inducono la trance, tratti da tradizioni rituali primitive, sciamaniche, musiche “forti” a ritmo molto intenso. La seconda ora è composta da musiche evocative di intensi stati d’animo, musiche “epiche”. Dopo circa un’ora e mezza dall’inizio della seduta, al culmine dell’esperienza, vengono introdotte quelle che chiamiamo “musiche di sfondamento” che vanno dalle intense e drammatiche musiche tratte da colonne sonore cinematografiche fino a musiche sacre come messe o requiem. Questo passaggio suona nel modo caratteristico di “un’onda che si rompe”. Proseguendo nella seconda metà della sessione l’intensità emotiva delle musiche diminuisce gradualmente verso “musiche di cuore”, musiche che “toccano l’anima”. Nella terza ora prevalgono le musiche meditative, rilassanti o comunque molto tenui e delicate, che accompagnano il lento ritorno allo stato di coscienza ordinario.

Le cinque fasi musicali della sessione possono essere così suddivise:

  1. musiche di apertura
  2. musiche per indurre la trance
  3. musiche di sfondamento
  4. musiche di cuore
  5. musiche meditative

Musiche di autori come Peter Gabriel, Vangelis, Mickey Hart, Gabrielle Roth, Ennio Morricone, Scott Fitgerald, Talku, Sainkho etc., sono molto utilizzate nella compilazione delle colonne sonore che accompagnano le sedute di respirazione.

 

L’esperienza

In ambito olotropico il termine “terapeuta” non prevede che si agisca in modo attivo sul “paziente”, ma viene usato nel senso tradizionale greco di “persona che assiste durante il processo di guarigione”. Il ruolo del terapeuta quindi durante le sedute olotropiche è quello di sostenere l’esperienza del respiratore senza influenzarlo o manipolarlo, anche quando il processo in corso non viene compreso immediatamente. Può accadere che gli “insights” corrispondenti emergano dopo l’esperienza, in una seduta successiva, durante un sogno o semplicemente come un “lampo improvviso” durante lo stato di veglia. La capacità di sostenere l’intensità di alcune esperienze richiede dal terapeuta una personale dimestichezza con gli stati non ordinari di coscienza e una piena fiducia nel suo potenziale terapeutico che deriva dalla propria esperienza e dal ricordo del proprio percorso terapeutico.

Durante gli esercizi di gruppo di “abbandono” e “affidamento” che precedono l’inizio della seduta di respirazione, ad un certo punto i partecipanti si “scelgono” a vicenda in base a criteri quali l’empatia, la fiducia etc. formano un certo numero di “coppie”. Durante i due giorni che seguono, ogni componente della coppia si alterna nei ruoli di respiratore o di assistente. L’assistente (o “sitter”) è colui che sta accanto al partner mentre questo “respira”, lo protegge e lo sostiene durante il “viaggio”. L’esperienza di assistente è complementare a quella di respiratore ed è anch’essa catalizzatrice di intensi stati d’animo. Come alcuni respiratori stessi dichiarano, anche questa esperienza è molto importante ed è parte integrante dell’intero processo.

Le reazioni fisiche che vengono attivate durante la seduta olotropica sono di complessa struttura psicosomatica e di solito possiedono un profondo significato psicologico, individuale, specifico di ciascun individuo. Queste reazioni a volte rappresentano una versione intensificata di tensioni e dolori della vita quotidiana; altre volte appaiono come una riattivazione di antichi sintomi di un stadio precedente della vita del respiratore. Altre volte, attraverso il linguaggio del corpo, comunicano un messaggio che può rappresentare un importante “insight” per quella persona in quel particolare momento. La strategia generale di questo lavoro sul corpo è quella di intensificare le sensazioni fisiche presenti nelle parti del corpo interessate con un appropriato intervento esterno e con l’aiuto del respiratore, aumentandole sempre di più finché non si sciolgono del tutto. Queste manifestazioni fisiche vengono di solito seguite da un profondo rilassamento. Quando rimangono tensioni residue o vissuti emotivi non completati e risolti, i “terapeuti” possono intervenire attraverso alcune particolari tecniche per liberarle e portare a completamento l’esperienza.

Durante lo svolgersi delle sedute di respirazione, viene utilizzata un’altra forma di intervento finalizzata ad offrire sostegno ad un livello molto profondo, pre-verbale. Il trauma relazionato a questo tipo di difficoltà è un trauma di “omissione” che affonda le sue radici in abbandoni e deprivazioni emotive, nella mancanza di soddisfazione di quel bisogno di esperienze positive e essenziali ad un sano sviluppo psicologico: accoglimento, fiducia, accettazione che generalmente vengono espresse attraverso il contatto fisico. Una delle modalità per riconoscere se il partecipante stia vivendo una regressione profonda è la scomparsa delle rughe del volto, l’espressione e molte volte il comportamento di un bambino con atteggiamenti e gesti che includono anche il pianto infantile o movimenti di suzione.

Quando durante l’esperienza, in un momento di profonda regressione, si ritorna in quel luogo di deprivazione, l’unico modo per superare simili traumi è quello di vivere in quel momento un’esperienza connettiva nella forma di un contatto fisico che la sostenga. Secondo accordi presi prima della seduta e con “l’approvazione del partecipante”, questo sostegno fisico può consistere nel contatto di una mano, in una carezza, o un lungo abbraccio e dovrà essere usato esclusivamente per soddisfare le necessità del respiratore e mai quella degli assistenti e terapeuti.

Le manifestazioni fisiche e emotive che avvengono durante le seduta olotropica variano notevolmente da persona a persona o nello stesso soggetto da una seduta all’altra. Alcuni partecipanti restano immobili e sembrano addormentati, altri si agitano e eseguono complessi movimenti che coinvolgono tutto il corpo: tremori, torsioni, spasimi etc. Altri assumono posizioni fetali o camminano carponi, movimenti che richiamano il nuotare, lo scavare, l’arrampicarsi, suoni e gesti di animali. Altri ancora eseguono complessi rituali primitivi o sacri di diverse culture, le varie posizioni dello yoga con i gesti caratteristici delle mani anche quando non li conoscono.

Le emozioni che emergono durante il processo sono di vario tipo e intensità e vanno dalla pace assoluta, serenità, beatitudine, rapimento estatico fino alla paura paralizzante, sentimenti di colpa, aggressività primitiva la cui intensità trascende ciò che possiamo sperimentare durante lo stato ordinario di coscienza. Emozioni così intense sono associate a esperienze di natura perinatale o transpersonale. Le emozioni di tipo biografico, legate a ricordi o esperienze traumatiche infantili anche se a volte sono molto intense, rimangono sempre vicine alle emozioni che conosciamo nella vita quotidiana: rabbia, tristezza, paura, vergogna, sorpresa, amore, gioia, compassione, colpa, ansietà etc.

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Elaborazione e integrazione

Alla fine della sessione, dopo che il respiratore è rientrato lentamente nello stato ordinario di coscienza, viene accompagnato dal suo assistente nel luogo dove si disegnano i mandala e invitato a esprimere graficamente l’esperienza su un grande foglio bianco, preferibilmente all’interno di un cerchio già disegnato. Il partecipante può anche scegliere di rappresentare l’esperienza per mezzo di un “collage”, fatto di illustrazioni ritagliate da riviste e incollate sul foglio o attraverso l’insieme delle due modalità. Altre possibili alternative sono i giochi con la sabbia di Dora Kalff e la scultura con l’argilla, utilizzata in particolare con respiratori ciechi.

In seguito, quando tutti i membri del gruppo hanno espresso graficamente, in un modo o nell’altro la propria esperienza, si rincontrano insieme al facilitatore (“terapeuta”, nel senso greco del termini, cioè di colui che assiste durante l’esperienza di trasformazione) per la condivisione: seduti in cerchio, ogni partecipante viene incoraggiato a raccontare il più liberamente possibile i propri vissuti ad un gruppo solitamente molto attento e accogliente. Non vengono date interpretazioni in quanto, data la profondità e complessità dei vissuti, qualsiasi interpretazione rischierebbe di ridurre e “congelare” il processo o interferire con il naturale percorso terapeutico. Possono a volte essere utili le amplificazioni di tradizione junghiana, come per esempio il parlare di analoghi motivi mitologici.

La  può essere combinata con un’ampia gamma di altre diverse forme terapeutiche o espressive come la  verbale, il lavoro sul corpo, lo psicodramma, lo yoga, la danza, la pittura etc., costituendo un insieme “terapeutico” che favorisce profonde trasformazioni psicologiche e l’evoluzione della personalità.

Cos’è la psicoterapia?

Cos’è la psicoterapia?

Svolgo questa professione da molti anni e se devo definire, con poche parole, il contenuto ed il significato di quel che faccio quotidianamente, mi viene da dire che semplicemente ascolto e danzo. Una danza di vibrazioni. E così, un po’ alla volta, anche l’altro inizia a danzare. Chi danza e vibra insieme all’altro naviga in direzione della vita e può cavalcare le onde e le tempeste là fuori… fuori dalla prigione.

La sofferenza psichica è un dono che ci obbliga a porci quelle famose domande fondamentali. Non è detto che verranno trovate le risposte, ma il solo percorso di ricerca porta con sé la tensione, lo sgomento, lo smarrimento, la perdita degli abituali punti di riferimento, tutti elementi indispensabili alla trasformazione. A volte porta persino un piccolo miracolo: “ritrovare se stessi”, ma un se stessi che non avevamo mai immaginato potesse esistere. Proprio come un drago che si trasforma in principessa o un ranocchio in un principe.