Dal deserto alla Terra Promessa

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Dal deserto alla Terra Promessa.

La via dell’individuazione/iniziazione

 

Non lascerò il mio spirito nell’uomo perché rimanga sterile.

Genesi 6, 3.

 

 

Il Dio ballerino
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Mi trovavo seduto sulla spiaggia al calare del sole e osservavo il movimento delle onde, sentendo allo stesso tempo il ritmo del mio respiro. Improvvisamente iniziai a percepire intensamente l’ambiente che mi circondava: mi sembrava che ogni cosa partecipasse a una gigantesca danza cosmica. Come fisico, sapevo che la sabbia, le rocce, l’acqua e l’aria intorno a me erano fatti di molecole e atomi in vibrazione e che tali molecole e atomi, a loro volta, consistono di particelle che interagiscono tra loro attraverso la creazione e la distruzione di altre particelle. Sapevo, nello stesso modo, che l’atmosfera della Terra era perennemente bombardata da piogge di “raggi cosmici”, particelle di alta energia che subivano multiple collisioni nella misura in cui penetravano nell’atmosfera. Tutto questo era per me familiare per via delle mie ricerche nell’ambito della Fisica dell’alta energia; fino a quel momento però tutto questo mi era arrivato attraverso grafici, diagrammi e teorie matematiche. Seduto sulla spiaggia quel giorno sentii che le mie conoscenze acquisivano vita. Così ho “visto” cascate di energia cosmica, provenienti dallo spazio esteriore, cascate all’interno delle quali particelle erano create e distrutte in pulsazioni ritmiche. Ho visto gli atomi degli elementi – così come quelli che formavano il mio corpo – partecipare a questa danza cosmica di energia. Sentii il suo ritmo ed ascoltai il suo suono. In questo momento compresi che si trattava della Danza di Shiva, il Dio ballerino, adorato dagli indù[1].

L’esperienza del fisico Fritjof Capra, autore del libro cult degli anni settanta Il Tao della fisica, così come viene descritta dall’autore, ci appare “illuminante”, nel vero senso del conoscere che è quello di “sentire il sapore” e coglierne l’essenza[2]. Secondo Platone la conoscenza deve essere fondata sul brivido che la bellezza desta nel cuore: più riusciamo ad assaporarla, più “entriamo nel segreto” e ci trasformiamo. È questa la “via di dentro”, attraverso la quale possiamo attingere a quella conoscenza viva che è contemporaneamente conoscenza di noi stessi. La via di fuori, la via esteriore alla conoscenza, tipica della scienza tradizionale, come ogni sapere acquisito con lo studio, rimane sempre dualistica: il conoscente e la cosa conosciuta, e conduce l’uomo ad una visione del mondo priva della sua grazia e del suo sapore, sganciata dai suoi archetipi fondamentali: una visione an-archica, nella quale si instaura un ordine apparente, le cui leggi non sono più in relazione con quell’armonia naturale che nasce dalla connessione di ogni cosa con il suo modello ontologico, possiamo anche dire “divino”.

Ogni ideologia o scienza che non si basa su questa connessione fondamentale è in fondo illusoria, un’utopia nel senso etimologico del termine che significa un “non luogo”: “conoscenza ottenuta attraverso lo scasso”, come viene descritta in ambito cabalistico. Nell’ottica di una rottura totale tra la conoscenza che emerge dall’interno e quella acquisita dall’esterno, quest’ultima “libera il pensiero ma aliena l’anima”. Pensiero che una volta reso autonomo perde tutta la sua linfa e genera “il parassita” che separa e prosciuga ogni cosa dalla sua forza vitale, la cui corrispondente definizione profana-occidentale è la Peste descritta da Wilhelm Reich: uno stato di alienazione normalizzata che genera morte. Morte, come vedremo in seguito, che può aprire le porte ad una nuova nascita.

Nel racconto biblico, il dramma della caduta consiste nell’abolizione totale dei fili che allacciano ogni cosa alla propria radice archetipica, la fonte di Vita, e di conseguenza al mondo tutt’intorno. Il serpente della genesi è l’elemento “perverso” che conduce l’uomo ad acquisire la conoscenza solo esteriore, conoscenza che “cosifica” il mondo, lo manipola con la sua visione inanimata e meccanicista che nulla ama e nulla trasforma; e l’uomo, cieco dinanzi alla propria interiorità, rimane cieco alla profondità di ogni realtà, che gli sfugge tra le dita come la sabbia del deserto.

 

Il dramma della caduta

Dalla cacciata dal giardino dell’Eden, al mito platonico dell’androgeno, a Cartesio che afferma: “Penso, quindi esisto”, se penetriamo sempre più intimamente nel mondo dei miti e credenze che hanno dato origine alla nostra attuale visione del mondo, riusciamo a cogliere il significato profondo e la genesi del dramma cosmico: il “dramma della separatezza” tra noi e il mondo, tra noi e gli altri. Da questo dramma e dal conseguente dolore prende forma tutta la nostalgia umana, tutto il rimpianto verso una completezza che ci appare come definitivamente perduta.

L’eterno problema del male, della sofferenza o della “sindrome da nullità” rimanda in primo luogo a questa separatezza che intorpidisce il cuore e rende l’uomo anestetizzato: un uomo che non reagisce più a ciò che scorge dinanzi a sé e che trasforma ogni cosa pulsante e viva e tutta la bellezza del mondo in un deserto di monotonia, il deserto nel quale oggi viviamo.

L’uomo del deserto è colui che ha distrutto ogni collegamento con i suoi spazi interiori, con il suo “centro di gravità permanente”, direbbe Battiato. Stando alle nostre tradizioni spirituali, ogni essere umano è, nel suo nucleo interiore, pura essenza e questo doloroso vissuto di alienazione viene descritto come “Il seme divino prigioniero nell’uomo”. È questa totale estraneità dalla propria vita interiore che genera il parassita e tutte le forme di schiavitù.

Contrariamente a ciò che sosteneva Descartes, la nostra tradizione spirituale può affermare, riferendosi a questo Centro essenziale dell’uomo: “Io sono; dunque io penso”. Come ci descrive Capra, siamo esseri vibranti in un cosmo vibrante. Tutto intorno a noi danza e canta l’inno della Vita, quel suono magico che intesse l’armonia dell’universo. La disarmonia nasce quando stoniamo, quando emettiamo suoni disarticolati e cacofonici e non partecipiamo più a questa misteriosa armonia sonora; quando, nell’universo lacerato, tutto diventa “cosa” in una sorta di riduzionismo omicida.

“Ogni cosa viene ridotta alla sua stretta apparenza, dietro la quale niente lampeggia di un’altra luce, niente sussurra di un altro dire, nessun profumo si sprigiona, nessuna danza viene accennata che possa coinvolgere il Verbo e renderlo in essa tangibile! Nessun cuore batte. Tutto è glaciale, compreso quel ‘Dio morto’ che alcuni ancora cantano in occidente, nei templi vuoti di tante parrocchie, i quali per restargli fedeli divengono infantili e tradiscono se stessi”[3].

Nessun movimento ecologico riuscirà mai a ritrovare l’armonia perduta con la Natura se non sentiamo di nuovo palpitare la Vita in noi e dietro ad ogni cosa intorno a noi, se non riusciamo a danzare la danza della vita. Se come bozzoli/boccioli non ci abbandoniamo alla nostra metamorfosi, e facciamo ritorno alla nostra Fonte: secondo la Cabalà, la nostra origine e divenire.

 

La conoscenza che trasforma

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“Chi mi farebbe vedere una rosa con la sua trasparenza e con il profumo così penetranti, se io non l’amassi? Chi mi farebbe scoprire il volto d’un essere fin nel sorriso o nelle lacrime del cuore, se io non l’amassi?”[4].

Nella “illuminazione” di Capra, la conoscenza che ne deriva nasce dall’unione – lo sposalizio sacro nel linguaggio cabalistico o la coniunctio oppositorum nel lessico junghiano – tra “grafici, diagrammi e teorie matematiche” e le sue visioni/immagini, sensazioni/emozioni: “cascate di energia cosmica, provenienti dello spazio esteriore […] suoni, ritmo e la danza cosmica di energia: la danza di Shiva, il Dio ballerino, adorato dagli indù”.

Ogni evoluzione comporta una coniunctio e gli opposti più difficili da ricongiungere sono proprio quelli che una volta integrati generano i più importanti e duratori conseguimenti: i grandi opposti archetipici Maschile/Femminile, la cui forza erotica rimane l’elemento più misterioso e sacro della nostra esistenza, possono essere considerati “l’alfabeto mitico” di ogni conoscenza: la forza che, diretta verso lo Sposo divino, la coscienza, presiede al matrimonio dell’uomo con se stesso.

L’amore, visto da questo punto di vista, non è un sentimento, nel senso in cui siamo abituati pensarlo, ma un grande processo naturale: è il principio di attrazione, di desiderio e di tensione tra gli opposti; il motore della nostra evoluzione e la forza propulsiva che conduce alla sintesi degli opposti. Per lo “sposo” (la coscienza), l’inconscio ricco di potenzialità latenti è una “sposa” allettante: pura forza vitale e un crogiolo di informazioni nel senso più ampio del termine: informazioni vive e dinamiche che non solo “informano” ma forgiano l’essere umano dall’interno. Questa conoscenza, secondo la Cabalà, non solo guarisce colui che conosce, ma lo trasforma a poco a poco “in luce”.

L’illuminazione non è altro che l’unione con il femminile profondo, il nostro “cosmo interiore”, che ci apre alla conoscenza naturale del Cosmo esteriore in quanto sono ambedue i poli di una stessa realtà. Questa conoscenza del segreto che si trova negli abissi più profondi di noi stessi è la più struggente ed elevata esperienza d’amore. Conoscenza-amore che non potrà mai essere definita come una conoscenza nel senso intellettuale del termine, si tratta piuttosto di un evento soggettivo: l’emersione della coscienza nella quale l’oggetto di conoscenza viene così pienamente assimilato da formare un tutt’uno con il conoscente. È conoscenza che non richiede sforzo di memorizzazione perché riguarda qualcosa che già esisteva potenzialmente e che giaceva dormiente in ogni nostra cellula. Non possiamo, in questo caso, parlare di memoria nel senso comune del termine, ma di qualcosa come di una “memoria cellulare” che viene, come dire… “risvegliata”[5].

È attraverso questo incontro di ogni essere umano con la “sposa delle profondità” che possiamo fare ritorno nel giardino dell’Eden, il “giardino del godimento”, e provare l’indescrivibile piacere e l’ebbrezza di esistere, prima sconosciute. Da questo godimento nasce un “figlio” nuovo, il figlio di quel piacere misterioso che pervade il nuovo stato dell’essere: un altro modo di sentire, dotato di una tale carica vitale da fare vacillare le fondamenta di due elementi prima estranei l’uno all’altro, e che, unendosi, “spiccano il volo”: il passaggio ad uno stato soggettivo totalmente diverso. Secondo la Cabalà l’uomo è ontologicamente creato per vivere attraverso infinite trasformazioni questo misterioso evento naturale: ri-nascere attraverso un altro ordine di parto, quello della sua interiorità.

 

Va verso di te

A tutti noi Dio[6] chiede ciò che ha ordinato ad Abramo: “va verso di te”. Nel momento in cui arriva questa “chiamata” ognuno di noi è in realtà tragicamente solo, ma ancora più tragico sarà non rispondere all’appello. Andare verso se stessi significa trovare la forza di porsi le domande cruciali dell’esistenza, quelle più difficili, non solo quelle che provengono dell’ego (i nostri “chi?” abituali). Domande che ci rimettono “in carreggiata” ed in contatto con quella forza nascosta che sottende tutta l’esistenza, forza che ci muove in direzione del superamento di noi stessi, così come ci conoscevamo (il nostro ego). È questo Il vero ESODO ̶ l’archetipo della evasione ̶ l’unico percorso di uscita del deserto della schiavitù. Questa fuga dal deserto interiore verso la “Terra promessa” è archetipicamente simbolizzata dalla grande avventura del popolo ebraico.

Se non ascoltiamo la chiamata o ci rifiutiamo di intraprendere questa via di individuazione/verticalizzazione fino alle sue ultime conseguenze, le nostre potenzialità di crescita interiore procederanno inconsciamente, ma nel percorso inverso: cresceranno dentro di noi come un corpo estraneo e maligno: una crescita all’incontrario, pericolosa e distruttiva, che anziché sanare la personalità finisce col provocare ulteriori sofferenze. Durante questo lungo e tormentato cammino, piacere e dolore divengono i nostri compagni di viaggio e fattori determinanti di conoscenza e rivelazioni.

 

La maschera o la tunica di luce
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Non possiamo aprire le finestre al mondo se non spalanchiamo prima di tutto i nostri confini interiori. Solo allora possiamo scorgere un’altra luce che illumina una realtà che è totalmente nuova. Luce che si spegne quando il nostro sguardo si volge sempre più annebbiato su un mondo rassicurante e prevedibile fatto di mattoni e cemento.

La condizione di caduta, rappresentata dagli ebrei nel deserto egiziano prima dell’Esodo, è una condizione esistenziale senza tempo che appartiene anche all’uomo moderno, definito in termini cabalistici “costruttore di mattoni”. Anziché andare verso l’estasi della propria realizzazione nell’unione con la “madre delle profondità”, l’uomo del deserto “costruisce mattoni” e ciò significa una ricerca perenne di una sorta di beatitudine nelle conquiste esteriori: nell’“immagine” di se stesso, nel look, nel consumo sfrenato, nella veste professionale, nelle banalità condivise. “Costruirsi un’immagine” (i mattoni) appartiene al mondo dell’inconsapevolezza; è la sostituzione narcisistica di ciò che ogni uomo è chiamato a conquistare interiormente: il suo Nome segreto, in rapporto al quale, il nome al quale rispondiamo non indica che la nostra maschera sociale. “Persona”, come la definisce Jung, che assume la propria dimensione umana, nel senso più elevato di questo termine, solamente quando entra in risonanza con “il seme”, il germe di vita sul quale è modellata la propria veste essenziale. Nella Cabalà si parla di “un suono fondamentale che viene dal Verbo” e che scolpisce ogni essere vivente partendo dalla sua radice ontologica. L’uomo che, come Narciso, persegue l’immagine esterna anziché la propria identità interiore, non può che fabbricare mattoni. L’uomo cosciente di se stesso e artefice del proprio nome è “pietra”.

 

Le piaghe

Nel momento in cui arriva la prima delle dieci piaghe dell’Egitto – le acque cambiate in sangue; le rane; il parassita; l’insetto; la peste; la lebbra; le grandine; la cavalletta; le tenebre… – ognuna simbolizzando una differente fase del processo di trasformazione – inizia per gli ebrei un lento processo di distinzione tra ciò che è compiuto, rappresentato dalla terra promessa verso la quale essi tendono, e ciò che resta ancora nelle tenebre dell’incoscienza, rappresentato dagli egiziani. Alla fine della descrizione di ogni piaga, nel libro sacro viene ripetuta la frase: “…e il cuore del faraone s’indurì sempre di più come aveva preannunciato il Dio”. Questo “indurimento del cuore del faraone” sta per il percorso di liberazione degli ebrei come l’avversario di ogni combattente nelle lotte orientali. Secondo il principio delle arti marziali, l’avversario non è mai il nemico, ma è colui che si oppone al lottatore perché costui, dinanzi a tale resistenza, sprigioni una nuova forza. È lo stesso principio dei lavori corporali eseguiti dai “facilitatori” durante le sedute di respirazione olotropica che tendono anch’essi all’intensificazione temporanea dei sintomi, il che porta successivamente alla loro dissoluzione.

Più arido è il nostro deserto, più intensa sarà la nostra sete, il nostro furore e la nostra passione. Così avviene nel percorso di individuazione/iniziazione: siamo chiamati alla trasformazione e nello stesso tempo mantenuti forzatamente nei nostri deserti; spinti verso una nuova nascita ma trattenuti nell’oscuro passaggio verso la luce: nati per la libertà, ma tenuti prigionieri. Ciascuna delle piaghe ci sprofonderà sempre di più nell’abisso che separa l’egiziano in noi dall’ebreo che anche noi siamo e dalla Terra promessa: la rinascita o lo “sposalizio” con il femminile profondo potrà avvenire solo alla fine di questo drastico processo di separazione di ciò che era prima oscuramente confuso.

La tradizione biblica considera il primogenito di ogni creatura come “l’immagine del Dio invisibile” ed è attraverso la decima e ultima piaga – la morte dei figli primogeniti e dei primogeniti degli animali – che viene raggiunto il momento clou dell’opposizione, il punto di rottura. È il momento nel quale le due forze opposte si scontrano, momento che implica di fatto il salto nell’ignoto ed una morte. Ogni essere umano può fare esperienza di questa morte e della propria ri-nascita nell’attimo in cui il buio dell’incoscienza si squarcia per lasciar scaturire la luce.

 

Giona

Agli scribi e farisei, gli intellettuali dell’epoca, che gli chiedevano di fare miracoli, Gesù rispose: “Non ve ne saranno dati altri, se non quello di Giona. Come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra…”[7].

Il profeta Giona, disobbediente alla chiamata divina, anziché andare verso Ninive, la capitale nemica degli Assiri, per annunciare la parola di Dio, s’imbarca per Tarsis, sottraendosi così alla propria missione. Sopraggiunge una tempesta, i flutti si sollevano insidiosi, mettendo a rischio la nave che minaccia d’affondare. I compagni d’imbarcazione terrorizzati interrogano i cieli e scoprono che era proprio lui, Giona, il viaggiatore sconosciuto, la causa e l’origine del dramma. Lo gettano in mare ed un grande pesce lo inghiotte. Giona rimane nel ventre dell’animale tre giorni e tre notti, ma quando finalmente si ricorda del destino assegnatogli da Dio, il grande pesce lo rigetta sulla terra ferma.

Lo stato di Giona nella nave è la desertica condizione dell’auto tradimento, la condizione di chi non ha ascoltato la chiamata verso il proprio mondo interiore. “Volgere lo sguardo verso l’alto e ricordarsi del destino assegnatogli da Dio” significa scorgere finalmente ciò che va oltre la prigione. Non solo percepire la propria appartenenza ad un Insieme molto più ampio, ma anche pensare in termini d’insieme, senza doversi soffermare sui singoli aspetti personali. Solo allora possiamo comprendere che ciò che appare assurdo o contradittorio può essere semplicemente un frammento temporaneo che al momento non siamo ancora in grado di integrare in una dimensione più vasta e rendere coerente e comprensibile. Quando per un breve instante l’uomo del deserto “alza gli occhi al cielo” e scorge qualcos’altro sopra la sua testa, inizia per lui la vita travagliata e insidiosa del “mutante”. Nelle parole di George Bataille: “Non dimenticherò mai ciò che di violento e di meraviglioso si lega alla volontà di aprire gli occhi, di guardare in faccia quel che accade, ciò che è. Ed io non conoscerei ciò che accade se non sapessi nulla del piacere estremo, se non sapessi nulla dell’estremo dolore”[8].

Tragedia e gloria dell’essere umano derivano dal fatto di potersi identificare contemporaneamente con gli aspetti contrastanti dell’esistenza, la forma esteriore e la vita (interiore). La testa fra le nuvole e i piedi affondati nel fango della vita quotidiana, gli occhi chiusi che non vedono la bellezza del mondo, è questa la condizione dell’uomo del deserto: drammaticamente sospeso tra il cielo e la terra, in costante oscillazione tra gli opposti, è egli stesso, lacerato, un campo di battaglia che ci ricorda il Kurukshetra, quando Arjuna proprio per la sua purezza e nobiltà d’animo ne esce vincitore con l’aiuto di Krishna che gli rivela gli insegnamenti della Bhagavad Gita.

Come afferma Albert Camus, la felicità va ricercata alle radici dell’infelicità. E Jung nel suo Libro Rosso ci ricorda che è nel fondo della sofferenza che un uomo si risveglia… al sorgere dell’Eterno in sé. E ciò accade proprio nell’attimo stesso in cui le tenebre preannunciano l’emergere dall’abisso e la rinascita. In questo momento la tentazione della regressione è sentita più fortemente, ma nella misura in cui ne siamo consapevoli e prendiamo parte attiva in questo mutamento la sofferenza viene sostenuta con dignità e l’esito sarà fruttuoso.

Il dramma della creazione e la storia della rivelazione ci vengono tramandati da millenni nell’intento di offrirci il “libretto di istruzioni” per operare l’integrazione degli opposti: luce e tenebre, corpo e anima, libertà e prigionia e in particolare Maschile e Femminile che, in un certo senso li raccoglie e li sintetizza. È attraverso questa sintesi che ciò che è invisibile emerge nel mondo visibile, attraverso il pensiero, l’immaginazione o l’opera creativa. E noi possiamo allora vedere e conoscere.

 

Il riscatto

In tutti i campi del sapere, oggi, la scienza attinge a valori che hanno attinenza con “l’esodo dal deserto” e con la trascendenza: la materia inerte inizia a rivelarci i suoi segreti; la matematica e la fisica moderna sconfinano con la mistica e con la metafisica; la medicina sembra non poter più ignorare il grande Mistero della morte e della nascita e la psichiatria si interroga sempre di più circa la vera natura delle malattie mentali. Stiamo iniziando ad afferrare un segreto antico e nuovissimo allo stesso tempo, che si integra con la scienza più moderna in un viaggio affascinante nel nostro profondo sentire.

Una frase del grande Maestro di vita mi fa molto riflettere: “Hai fatto il tuo dovere” dice Gesù, “sei un servo inutile”[9]. Ma cosa c’è oltre il nostro dovere? Forse, alla luce di quanto detto finora: l’esodo dal deserto ed il riscatto a caro prezzo della nostra presenza in questo mondo.

Scrive Camus: “…anch’io come tutti, avevo letto dei racconti sui giornali. Ma certo esistevano libri speciali che non ho mai avuto la curiosità di consultare; in essi forse avrei trovato racconti di evasione. Avrei saputo che almeno in un caso la ruota si era fermata, che in quel precipitare irresistibile, una sola volta, il caso e la fortuna avevano cambiato qualcosa. Una volta! In fondo credo questo mi sarebbe bastato: il mio cuore avrebbe fatto il resto”[10].

Se una sola volta viviamo ciò che archetipicamente ci viene descritto come “l’Esodo degli ebrei dal deserto”, o dalla prigione del nostro deserto/ego, se “anneghiamo” e veniamo finalmente espulsi dal ventre del grande pesce, conosciamo l’infinito e forse, per un attimo, abbiamo intravisto la Luce. In questo travagliato viaggio agli albori dell’anima, è come se piantassimo le nostre radici nel suolo fertile e potessimo finalmente germogliare.

 

 

 

[1] Capra, F., O Tao da Fisica, Editora Cultrix, Sao Paulo, 1983, p. 13 (T.d.A.).

[2] La stessa parola “sapienza” viene dal latino sàpere, che significa “aver sapore”.

[3] Souzenelle. A., L’Egitto interiore. Le dieci piaghe dell’anima, Servitium editrice, Troina, 2007, p. 87.

 

[4] Ivi, p. 112.

[5] In ambito esoterico si ipotizza l’esistenza di una memoria “cellullare”. Gli scienziati indagano sull’argomento, ma ancora non sono arrivati ad accertarne l’esistenza. Oggi si parla di una memoria cellulare che potrebbe appartenere ad ogni tipo di organismo vivente, persino all’acqua.

 

[6] Dio nel senso descritto da Ken Wilber di “vertice archetipico della propria coscienza” o il Dio/Natura dei cabalisti.

[7] Matteo 12, 39-40.

 

 

[8] Bataille, G., L’erotismo, ES, Milano, 1997, p. 246.

[9] Luca 17, 10.

[10] Camus, A., Lo straniero, Omnibus Euroclub, p. 107.

Respirazione olotropica

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Strategia terapeutica
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Nella nostra cultura, dominata dal paradigma scientifico, la  ha perso quella “sacralità” caratteristica delle varie tradizioni spirituali e sciamaniche ed è stata ridotta a semplice funzione fisiologica, perdendo così il suo significato di connessione con la psiche e lo spirito. Soltanto negli ultimi decenni i “terapeuti” occidentali hanno riscoperto il potenziale terapeutico della  e sviluppato tecniche che la utilizzano secondo diverse modalità.

La strategia olotropica di “” o di evoluzione della coscienza, si basa sul principio fondamentale che i “sintomi” sia emotivi che psicosomatici rappresentino un tentativo spontaneo dell’organismo di guarire se stesso, superare i propri traumi e raggiungere uno stato di maggior equilibrio. Principio questo che la terapia olotropica condivide con l’omeopatia nella tendenza all’attivazione e intensificazione temporanea dei sintomi presenti ed esteriorizzazione di quelli latenti, il che porta successivamente alla loro dissoluzione. Il sintomo viene visto quindi come un’opportunità di cambiamento, una tendenza naturale che la terapia dovrebbe assecondare, diversamente da quanto avviene nella pratica tradizionale, focalizzata sopratutto sulla sua soppressione.

Nel metodo “terapeutico” sviluppato da Grof, attraverso l’utilizzo di mezzi naturali come la , la musica evocativa e tecniche di lavoro sul corpo, vengono indotti potenti stati non ordinari di coscienza che portano alla rimozione dei blocchi bioenergetici e alla liberazione delle energie fisiche ed emotive represse. La risoluzione del trauma e il cambiamento che ne deriva, può significare una vera e propria trasformazione della personalità e scaturisce da vissuti profondi che spesso sfuggono alla comprensione razionale. Tale risoluzione può avvenire a livello biografico, essere cioè connessa ad esperienze e traumi infantili o all’emergenza di materiale perinatale e transpersonale.

Molte persone, in un momento particolare della loro esistenza, si rendono conto di una certa “ristrettezza di vivere”, si accorgono di agire ed esprimersi ad un livello molto inferiore alle loro potenzialità creative ed esistenziali. Questa consapevolezza porta a un’inversione di rotta nei processi intrapsichici, al ritiro delle energie psichiche investite nel mondo esterno e alla loro “introversione”: investimento nel mondo interiore alla ricerca di qualcosa che è andato perduto. Jung lo considera un processo naturale, tipico della seconda metà della vita. A questo punto, incominciano ad affiorare alla coscienza contenuti inconsci investiti di forte carica emotiva che possono interferire più o meno sul vivere quotidiano e che possono investire solo alcuni settori della vita come le relazioni, il lavoro o la sessualità, fino ad una interferenza massiccia su tutti gli aspetti dell’esistenza o sullo stesso rapporto con la realtà.

Le proporzioni di questa interferenza sono relazionate con il momento in cui sono avvenuti i traumi più importanti nella vita della persona e determinano se il processo raggiungerà proporzioni nevrotiche (traumi più tardivi nell’infanzia) o psicotiche (traumi legati a stadi più precoci). Questo irrompere di materiale inconscio provoca una crisi che può rappresentare un’occasione di risoluzione dei traumi stessi e di trasformazione psicologica.

La musica

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La musica evocativa da sempre ha avuto un ruolo molto importante nell’induzione della trance. I battiti monotoni dei tamburi e i canti hanno da sempre accompagnato i riti iniziatici e propiziatori in varie parti del mondo. Anche nella terapia olotropica la musica ha un ruolo fondamentale. Deve essere potente e evocativa, di preferenza musica di ottima qualità artistica, con pochi riferimenti concreti (i brani vocali debbono essere in lingue sconosciute). Vengono evitate musiche dissonanti e ansiogene e la caratteristica comune è quella di essere sconosciute, nella maggior parte dei casi, al gruppo dei respiranti. La nostra “colonna sonora” ha la durata di tre ore ed è composta da musiche appartenenti a vari generi: etniche, sacre, strumentali, “suoni della natura”, musiche “new age”, canti orientali, etc.

L’utilizzo della musica nel nostro contesto è molto diverso dall’ascolto compito e intellettualizzato a cui siamo abituati nelle sale da concerto o teatri, è una modalità di ascolto più libera, coinvolgente e sconvolgente, che assomiglia di più a quella di un concerto rock. E’ importante arrendersi completamente al ritmo della musica, lasciarla “entrare dentro” e reagire in modo libero e spontaneo, permettendo al proprio organismo di esprimere tutto ciò che la musica catalizza dentro di sé, fare “uscire fuori”, sia dal punto di vista fisico che emotivo, grida, risate, canti, versi di neonati o di animali, movimenti rituali, mormorii che giungono fino al parlare una lingua sconosciuta etc. Ma anche mimiche esagerate, tremori, movenze erotiche, contorsioni del corpo e del volto etc. In questo contesto la musica esercita diverse importanti funzioni: aiuta ad aprire le porte dell’inconscio, mobilitando le emozioni legate a ricordi assopiti e traumi rimossi, facilitando così la loro manifestazione e approfondendo il processo di guarigione; favorisce una forma di “insight” dinamica ed estetica e non ultimo copre i rumori (singhiozzi, pianto, grida) prodotti dai partecipanti durante l’esperienza.

La seduta si apre con musiche dinamiche, scorrevoli e prosegue durante la prima ora con musiche “celebrative”, aumentando poi sempre di intensità verso brani che inducono la trance, tratti da tradizioni rituali primitive, sciamaniche, musiche “forti” a ritmo molto intenso. La seconda ora è composta da musiche evocative di intensi stati d’animo, musiche “epiche”. Dopo circa un’ora e mezza dall’inizio della seduta, al culmine dell’esperienza, vengono introdotte quelle che chiamiamo “musiche di sfondamento” che vanno dalle intense e drammatiche musiche tratte da colonne sonore cinematografiche fino a musiche sacre come messe o requiem. Questo passaggio suona nel modo caratteristico di “un’onda che si rompe”. Proseguendo nella seconda metà della sessione l’intensità emotiva delle musiche diminuisce gradualmente verso “musiche di cuore”, musiche che “toccano l’anima”. Nella terza ora prevalgono le musiche meditative, rilassanti o comunque molto tenui e delicate, che accompagnano il lento ritorno allo stato di coscienza ordinario.

Le cinque fasi musicali della sessione possono essere così suddivise:

  1. musiche di apertura
  2. musiche per indurre la trance
  3. musiche di sfondamento
  4. musiche di cuore
  5. musiche meditative

Musiche di autori come Peter Gabriel, Vangelis, Mickey Hart, Gabrielle Roth, Ennio Morricone, Scott Fitgerald, Talku, Sainkho etc., sono molto utilizzate nella compilazione delle colonne sonore che accompagnano le sedute di respirazione.

 

L’esperienza

In ambito olotropico il termine “terapeuta” non prevede che si agisca in modo attivo sul “paziente”, ma viene usato nel senso tradizionale greco di “persona che assiste durante il processo di guarigione”. Il ruolo del terapeuta quindi durante le sedute olotropiche è quello di sostenere l’esperienza del respiratore senza influenzarlo o manipolarlo, anche quando il processo in corso non viene compreso immediatamente. Può accadere che gli “insights” corrispondenti emergano dopo l’esperienza, in una seduta successiva, durante un sogno o semplicemente come un “lampo improvviso” durante lo stato di veglia. La capacità di sostenere l’intensità di alcune esperienze richiede dal terapeuta una personale dimestichezza con gli stati non ordinari di coscienza e una piena fiducia nel suo potenziale terapeutico che deriva dalla propria esperienza e dal ricordo del proprio percorso terapeutico.

Durante gli esercizi di gruppo di “abbandono” e “affidamento” che precedono l’inizio della seduta di respirazione, ad un certo punto i partecipanti si “scelgono” a vicenda in base a criteri quali l’empatia, la fiducia etc. formano un certo numero di “coppie”. Durante i due giorni che seguono, ogni componente della coppia si alterna nei ruoli di respiratore o di assistente. L’assistente (o “sitter”) è colui che sta accanto al partner mentre questo “respira”, lo protegge e lo sostiene durante il “viaggio”. L’esperienza di assistente è complementare a quella di respiratore ed è anch’essa catalizzatrice di intensi stati d’animo. Come alcuni respiratori stessi dichiarano, anche questa esperienza è molto importante ed è parte integrante dell’intero processo.

Le reazioni fisiche che vengono attivate durante la seduta olotropica sono di complessa struttura psicosomatica e di solito possiedono un profondo significato psicologico, individuale, specifico di ciascun individuo. Queste reazioni a volte rappresentano una versione intensificata di tensioni e dolori della vita quotidiana; altre volte appaiono come una riattivazione di antichi sintomi di un stadio precedente della vita del respiratore. Altre volte, attraverso il linguaggio del corpo, comunicano un messaggio che può rappresentare un importante “insight” per quella persona in quel particolare momento. La strategia generale di questo lavoro sul corpo è quella di intensificare le sensazioni fisiche presenti nelle parti del corpo interessate con un appropriato intervento esterno e con l’aiuto del respiratore, aumentandole sempre di più finché non si sciolgono del tutto. Queste manifestazioni fisiche vengono di solito seguite da un profondo rilassamento. Quando rimangono tensioni residue o vissuti emotivi non completati e risolti, i “terapeuti” possono intervenire attraverso alcune particolari tecniche per liberarle e portare a completamento l’esperienza.

Durante lo svolgersi delle sedute di respirazione, viene utilizzata un’altra forma di intervento finalizzata ad offrire sostegno ad un livello molto profondo, pre-verbale. Il trauma relazionato a questo tipo di difficoltà è un trauma di “omissione” che affonda le sue radici in abbandoni e deprivazioni emotive, nella mancanza di soddisfazione di quel bisogno di esperienze positive e essenziali ad un sano sviluppo psicologico: accoglimento, fiducia, accettazione che generalmente vengono espresse attraverso il contatto fisico. Una delle modalità per riconoscere se il partecipante stia vivendo una regressione profonda è la scomparsa delle rughe del volto, l’espressione e molte volte il comportamento di un bambino con atteggiamenti e gesti che includono anche il pianto infantile o movimenti di suzione.

Quando durante l’esperienza, in un momento di profonda regressione, si ritorna in quel luogo di deprivazione, l’unico modo per superare simili traumi è quello di vivere in quel momento un’esperienza connettiva nella forma di un contatto fisico che la sostenga. Secondo accordi presi prima della seduta e con “l’approvazione del partecipante”, questo sostegno fisico può consistere nel contatto di una mano, in una carezza, o un lungo abbraccio e dovrà essere usato esclusivamente per soddisfare le necessità del respiratore e mai quella degli assistenti e terapeuti.

Le manifestazioni fisiche e emotive che avvengono durante le seduta olotropica variano notevolmente da persona a persona o nello stesso soggetto da una seduta all’altra. Alcuni partecipanti restano immobili e sembrano addormentati, altri si agitano e eseguono complessi movimenti che coinvolgono tutto il corpo: tremori, torsioni, spasimi etc. Altri assumono posizioni fetali o camminano carponi, movimenti che richiamano il nuotare, lo scavare, l’arrampicarsi, suoni e gesti di animali. Altri ancora eseguono complessi rituali primitivi o sacri di diverse culture, le varie posizioni dello yoga con i gesti caratteristici delle mani anche quando non li conoscono.

Le emozioni che emergono durante il processo sono di vario tipo e intensità e vanno dalla pace assoluta, serenità, beatitudine, rapimento estatico fino alla paura paralizzante, sentimenti di colpa, aggressività primitiva la cui intensità trascende ciò che possiamo sperimentare durante lo stato ordinario di coscienza. Emozioni così intense sono associate a esperienze di natura perinatale o transpersonale. Le emozioni di tipo biografico, legate a ricordi o esperienze traumatiche infantili anche se a volte sono molto intense, rimangono sempre vicine alle emozioni che conosciamo nella vita quotidiana: rabbia, tristezza, paura, vergogna, sorpresa, amore, gioia, compassione, colpa, ansietà etc.

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Elaborazione e integrazione

Alla fine della sessione, dopo che il respiratore è rientrato lentamente nello stato ordinario di coscienza, viene accompagnato dal suo assistente nel luogo dove si disegnano i mandala e invitato a esprimere graficamente l’esperienza su un grande foglio bianco, preferibilmente all’interno di un cerchio già disegnato. Il partecipante può anche scegliere di rappresentare l’esperienza per mezzo di un “collage”, fatto di illustrazioni ritagliate da riviste e incollate sul foglio o attraverso l’insieme delle due modalità. Altre possibili alternative sono i giochi con la sabbia di Dora Kalff e la scultura con l’argilla, utilizzata in particolare con respiratori ciechi.

In seguito, quando tutti i membri del gruppo hanno espresso graficamente, in un modo o nell’altro la propria esperienza, si rincontrano insieme al facilitatore (“terapeuta”, nel senso greco del termini, cioè di colui che assiste durante l’esperienza di trasformazione) per la condivisione: seduti in cerchio, ogni partecipante viene incoraggiato a raccontare il più liberamente possibile i propri vissuti ad un gruppo solitamente molto attento e accogliente. Non vengono date interpretazioni in quanto, data la profondità e complessità dei vissuti, qualsiasi interpretazione rischierebbe di ridurre e “congelare” il processo o interferire con il naturale percorso terapeutico. Possono a volte essere utili le amplificazioni di tradizione junghiana, come per esempio il parlare di analoghi motivi mitologici.

La  può essere combinata con un’ampia gamma di altre diverse forme terapeutiche o espressive come la  verbale, il lavoro sul corpo, lo psicodramma, lo yoga, la danza, la pittura etc., costituendo un insieme “terapeutico” che favorisce profonde trasformazioni psicologiche e l’evoluzione della personalità.