Trascendere la divisione

La nostra dannazione e la nostra salvezza”1

Forse tutti i draghi della nostra vita sono principesse che attendono solo di vederci una volta belli e coraggiosi. Forse tutto l’orrore non è in fondo altro che l’inerme, che ci chiede aiuto e che nell’attimo estremo si tramutano in principesse?…

Rainer Maria Rilke (da Lettere a un giovane poeta)

Riflettendo sul tema “conflitti” mi viene in mente quel profondo disaggio che ci caratterizza in quanto “uomini moderni”, dal punto di vista soggettivo: un eterno conflitto ed una sofferenza che conosciamo bene, accompagnata dalla sensazione di essere divisi tra la nostra parte razionale ed il nostro profondo sentire, divisi “dalla Natura in noi”, ciò che Lévy-Bruhl definisce come la perdita della partécipation mystique.1

Una separazione dolorosa, ci sentiamo lacerati, estirpati dal grembo della natura, eppure ricordiamo un lontano sentimento di completezza, di unità originaria che sentiamo di aver vissuto “altrove”, nel tempo o nello spazio. É questo il nostro fondamento conflittuale, sempre più esasperato nell’uomo contemporaneo: il desiderio d’infinito in un corpo finito ed una mente che può spingersi oltre e pensare l’immensità, provare nostalgia per la totalità perduta descritta dai poeti e presente nei miti di tutti i tempi.

Dallo spazio lasciato vuoto e dall’ardente desiderio, nascono i nostri draghi e tutti i fantasmi della nostra immaginazione: testimoni ingombranti dell’innominabile desiderio e della sua agognata realizzazione che spesso si manifestano attraverso ciò che nel linguaggio psicologico chiamiamo “proiezioni” o “il ritorno del rimosso”. Lo stesso atteggiamento psicologico dell’uomo contemporaneo nei confronti della natura da “controllare” e nei confronti della terra come oggetto di sfruttamento e di dominio, potrebbe essere considerata un’ulteriore espressione di questa mancanza e di questa separatezza sia a livello individuale che collettivo. la descrive come “l’attivazione della Terza matrice perinatale”2, associata all’esperienza della nascita.

Questo conflitto tra l’invalicabilità del limite e il desiderio di trascenderlo, tra la conservazione della nostra individualità e la sua dissoluzione, definito da Nietzsche come “la nostra dannazione e la nostra salvezza”, sta alla base di ogni episodio d’ amore e di ogni evento di morte. É proprio l’esperienza di un rapporto emotivo molto profondo, nel quale siamo capaci di annegare e di perdere del tutto la nostra individualità, che ci permette di sperimentare e toccare con mano la coesistenza degli opposti, di conoscere il caos, il paradiso e l’inferno e trascendere la divisione.

Il mito

Miti e riti sono espressione di un sentire collettivo, ma noi abbiamo perso l’abitudine a pensare in termini mitologici e non ci accorgiamo neanche che in fondo tutti i miti ci raccontano con voci diverse una sola storia. Quando prendiamo contatto per la prima volta con questi racconti fantastici così come con i nostri “grandi sogni”, questi ci appaiono come qualcosa di strano, staccato dalla vita e abbiamo la sensazione di entrare in un mondo irreale, popolato da fantasmi.

Nella mitologia classica greca la figura di Icaro, legata alle ali ed al volo che gli costò la vita, è una figura archetipica che anela la fusione totale. Icaro prende il volo e troppo preso dall’emozione del “senza limite” non ricorda l’avvertimento di suo padre di non spingersi troppo in alto, così finisce per dissolversi nel mare che simbolicamente rappresenta una forma di unione con l’infinito.

Il grande dramma rituale cui questo mito appartiene e sul quale affondano le radici della nostra tradizione religiosa e della nostra struttura psichica è rappresentato da sempre, nelle sue più svariate forme, nelle cerimonie di rinnovamento (dell’anno, del re, del regno etc…), che corrispondono alle celebrazioni di un nuovo ciclo di vita, dell’anno nuovo o di un nuovo inizio. Nelle antiche culture queste cerimonie erano celebrate pubblicamente con la partecipazione di tutta la comunità. Da esse si differenziarono i diversi riti che conosciamo bene: il matrimonio, l’ordinazione dei sacerdoti, i riti di iniziazione, le varie celebrazioni di morte e rinascita della divinità che diedero vita alle attuali forme religiose.

Nella tradizione afro-brasiliana il mito di Iemanjà ci descrive un’avventura interiore3, una regressione psichica “nelle acque scure del mare primordiale” e sottolinea quanto la natura (o la psiche) premi generosamente i “coraggiosi” che riescono a varcare la soglia: “viaggiano nelle terre senza fine e conoscono tutti i segreti del mondo”. Una morte iniziatica, un passaggio verso il “senza limiti” che non pone termine naturale all’esistenza, ma la trasforma profondamente, momento culmine di una tappa dello sviluppo psicologico.

Tutte le religioni ammettono la possibilità di risanare la frattura operata dalla coscienza tra soggetto e oggetto attraverso l’esperienza del sacro. Il grande scrittore brasiliano Guimaraes Rosa la cui scrittura viene considerata “un’alchimia letteraria” la descrive come un progressivo “addentrarsi nella morte”: “Ogni creatura è uno scarabocchio destinato a subire ritocchi senza fine, fino all’ora della liberazione dell’arcano, al di là del Lete, il fiume della memoria. Però ogni grande passo avanti nella crescita dello spirito esige la caduta dell’intero essere, l’addentrarsi in immensi pericoli, un morire in mezzo alle tenebre. Ma quello che viene dopo è ‘il Rinato’, un uomo più reale e nuovo”4. E ancora: “un morto ha sempre paura. Ha paura di morire ancora nell’infinito Niente […] Debbo tramutarmi. Soffro le ali…”5.

Accettare la sfida della trascendenza provoca quel tipo di crisi spirituale che porta l’uomo alla paura religiosa, a quel sentimento di terrore dinanzi al “mysterium tremendum” descritto da Rudolf Otto6. Erich Neumann nel suo libro La Grande Madre7 utilizza l’espressione simbolica “incesto uroborico” per definire questa tendenza dell’io e della coscienza a dissolversi, questo desiderio di morte, che ha una dimensione profondamente amorosa ed erotica. Una pulsione primordiale della natura umana che si manifesta attraverso l’attivazione dell’archetipo della Grande Madre.

Questa esperienza di essere sopraffatti da un potere che supera di gran lunga la nostra possibilità di contenimento e che viene vissuta come irruzione del sacro o “apparizione del divino” è una esperienza umana di grande significato non solo individuale, ma anche collettivo, poco considerata dalla nostra cultura occidentale il cui mito dominante rimane sempre “la ragione che vince sull’ignoto”. Nei sogni degli analizzandi questo vissuto viene spesso rappresentato con immagini di uragani o di onde gigantesche e minacciose, nel quale il sognatore viene sommerso dalle acque, a volte annega, in preda al panico.

Ritorno nella spiaggia della mia infanzia. Il mare improvvisamente incomincia ad agitarsi, si alza finché diventa un’onda immensa, minacciosa, cresce sempre di più, è uno tsunami. Preso dal panico il sognatore corre verso la sua macchina per scappare, cerca le persone care, deve salvarle, ma non c’entrano tutte dentro alla macchina. (sogno di Mario, 57 anni)

Guardo dell’alto molte persone sulla spiaggia, sopra gli scogli. C’era una caverna di pietra sul mare. Un terremoto: la caverna incomincia a crollare ed il mare invade la terra sommergendo tutto. Le persone scappano terrorizzate. (Marta, 30 anni)

Quando parliamo di “attacchi di panico” gli associamo spesso alla “paura” di qualcosa che non si conosce e trascuriamo un aspetto importante, quello del desiderio per ciò che, appunto, il dio Pan rappresenta: il richiamo della Natura in noi, il richiamo del “mare”, inteso come dimensione emotiva originaria. Pan, la divinità greca della natura selvaggia, del quale lo stupro è una caratteristica, nel mito può manifestarsi improvvisamente e “violentare” il(la) malcapitato(a). Il suo terribile grido è spaventoso e può gettare nella disperazione chi lo ode: è il panico che, come la vertigine, non è solo paura, ma desiderio: di volare, di andare oltre, di trascendere. Tutto ciò rappresenta un’irruzione da parte della Natura dalla quale siamo stati divisi e verso la quale proviamo una struggente nostalgia.

Immaginazione e simbolo, contenitori di opposti

Tendiamo spesso a proiettare i nostri conflitti irrisolti nella nostra “cosmovisione”, spesso manichea o nello scontro politico, espressioni della lotta tra gli aspetti maschili (razionali) e femminili (emotivi, intuitivi) della nostra personalità.

La nostra forma abituale di coscienza data degli aspetti razionali della psiche non riesce a penetrare la natura più intima delle cose, mentre attraverso le “altre forme di coscienza separate da un velo leggerissimo”, di cui parla William James1, possiamo attingere ad una comprensione molto più ampia del mondo in cui viviamo. La ragione è come un’isola nell’oceano dell’irrazionale, ed è proprio da questo mare primordiale che è l’essenza di ciò che siamo, che può emergere una dimensione di maggiore completezza e integrazione tra noi stessi e la natura, dentro e fuori di noi.



E allora tu non devi spaventarsi se davanti a te sorge una tristezza,

grande quanto non ne hai mai vedute prima;

se una inquietudine, come luce e ombra di nuvole,

scivola sulle tue mani e su tutto il tuo agire.

Devi pensare che qualcosa accade in te,

che la vita non ti ha dimenticato, che ti tiene in mano e non ti lascerà cadere. ( Rainer Maria Rilke in Lettere a un giovane poeta)

Il grande mediatore

Nella esperienza quotidiana cerchiamo sempre di sottoporre le nostre esperienze al vaglio della ragione e di “controllare” la realtà nella quale viviamo, una forma di difesa dalla paura di “esistere”, ma l’immaginazione, libera dai vincoli della ragione, fa emergere particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni: immagini che nascono dalle aspirazioni più recondite (il desiderio innominabile) e che agiscono come contenitori di opposti, il primo passo verso il simbolo mediatore.

Secondo Richard Tarnas l’esaltazione dell’ego razionale “freddamente cosciente di sé e radicalmente separato da una natura esteriore disincantata”2 ha determinato l’evoluzione della cultura occidentale e gran parte dei conflitti e instabilità tipiche della nostra epoca. Tarnas ritiene che la crisi dell’uomo moderno sia una crisi essenzialmente maschile, crisi che si sta avviando verso una soluzione attraverso la eccezionale emergenza del principio femminile nella nostra cultura. “Per ottenere la reintegrazione del femminile represso”, afferma Tarnas, la nostra coscienza dovrebbe passare attraverso il sacrificio delle nostre più radicate certezze su noi stessi e sul mondo: “in questo consiste il vero atto di eroismo. É necessario oltrepassare una soglia che esige un coraggioso atto di fede, d’immaginazione, di fiducia in una realtà più ampia e più complessa”3. Il principio femminile emerge tutte le volte che si apre una porta o si abbatte un confine geografico o psicologico ed ogni volta che ci abbandoniamo a quell’ accoglimento totale al quale, come sostiene George Bataille, possiamo accedere solamente “annullandoci”.

Il grande mediatore, tra noi e l’infinito che ci abita, tra noi e la nostra “follia” è, da sempre, l’amore che unisce due essere umani che è anche contemporaneamente il grande traduttore di quel linguaggio non verbale, ignoto a molti, non codificabile con gli strumenti della ragione. Innamorarsi significa aprirsi alla follia di trascendere se stessi. Chi entra in una storia d’amore non esce mai come prima, qualcosa accade in mezzo alla tempesta dei sentimenti, qualcosa il cui fine ultimo è ricucire la lacerazione e ricomporre l’antica unità. In questo senso l’amore è “maieutico” e catalizzatore di profonde trasformazioni.

Secondo Jung ciò che non va nella nostra vita psichica, ciò che la rende incompleta, lacerata, è il rifiuto sistematico dell’aspetto femminile in noi stessi, il quale, rigettato, viene reso folle da un mondo dominato dagli uomini. Quel femminile che lui stesso affrontò nella sua drammatica immersone in quella dimensione profonda di se stesso che più tardi chiamò “inconscio collettivo”. Jung aveva profetizzato un cambiamento epocale della psiche contemporanea: una coniunctio oppositorum tra il principio maschile/razionale dominante e quello femminile/emotivo che sarebbe affiorato sempre di più, affermandosi nella nostra cultura. Secondo Tarnas questa trasformazione è sempre stata la meta recondita di tutto lo sviluppo intellettuale e spirituale dell’occidente. Il desiderio più profondo sepolto nell’inconscio dell’uomo moderno sarebbe quello di trascendere l’eterno conflitto e sanare la profonda frattura interiore.

Psiche e Natura

Gregory Bateson, psicologo eclettico, nel suo libro Verso un’ecologia della mente4, libro che ha affascinato studiosi e non esperti di tutto il mondo con il suo concetto rivoluzionario della “mente ecologica”, ci offre una visione olistica ed ecologica dell’essere umano e della psiche. Bateson descrive un ponte che collega l’azione umana alla natura e afferma che questa nella sua relazione con l’uomo non è solamente ciò che possiamo percepire con i nostri sensi, cioè l’aspetto materiale, ma è anche il processo e il risultato (come descritto nei testi millenari della Cabalà), ed è Lei stessa l’artefice della propria evoluzione: tutte le parti interagiscono continuamente l’una con l’altra per favorire “il progetto evolutivo”.  Esponendo la sua visione olistica del substrato materiale sottostante i processi mentali e che li mantiene in vita, Bateson ci offre una visione più completa ed ecologica dell’essere umano e del suo funzionamento mentale, delineando un punto di contatto tra il nostro comportamento e la Natura.

Oggi sta nascendo un nuovo indirizzo della psicologia relazionato al cambiamento climatico sulla stregua di James Hillman, che già qualche decennio fa invitava gli psicologi ad uscire dallo studio e agire nel mondo in vista di un cambiamento globale. Un gruppo di psichiatri australiani ha dato un nome allo stato di angoscia che affligge attualmente l’essere umano legato alla tragedia ambientale provocata dal riscaldamento globale, a quel sentimento di impotenza e disperazione che nasce dalla percezione che non ci sia più un futuro: solastalgia (espressione inglese che unisce i termini latini “solacium”,conforto e “algia”, dolore), termine che descrive il dolore per la perdita dell’ambiente nel quale siamo cresciuti e che non riconosciamo più intorno a noi e la nostalgia per la terra come era prima. Nato dalla psicologia clinica il termine solastalgia indica quel senso di malessere che ci assale quando l’ambiente che ci circonda è stato violato o distrutto. Fu ispirato al sentimento comune degli abitanti dell’isola di Nauru, un «paradiso perduto” nell’Oceano Pacifico, che un pò alla volta ha visto le montagne e ora anche le spiagge essere inghiottite dall’innalzamento dei mari causato dal surriscaldamento globale. Mi ricorda il sentimento descritto da P.P. Pasolini, già molto tempo fa, quando parlava della “sparizione delle lucciole”: conseguenze disastrose della violenza dell’uomo sulla natura e della folle economia estrattiva contemporanea che sacrifica persino il suolo sotto i nostri piedi. Il filosofo Glenn Albrecht la definisce “la nostalgia di casa che si prova quando si è ancora a casa”.

Come psicoterapeuti, oggi più che mai, non possiamo chiudere un occhio in relazione ai risvolti sulla salute mentale provocati dal cambiamento climatico e non possiamo esimerci dallo svolgere attività preventiva per la società. La trasformazione del nostro rapporto con la Natura è prima di tutto un accadimento intrapsichico. Ne consegue un cambiamento radicale “dell’occhio che guarda” la Natura e del nostro modo di rapportarci ad essa.

Voltando lo sguardo verso la visione orientale dell’evoluzione della coscienza, la teoria di Bateson, di Tarnas e di Jung e la psicologia transpersonale, che considerano la trascendenza – che è morte e metamorfosi dell’ego limitato – una tappa determinante dell’evoluzione umana ed una via d’accesso ad una coscienza più ampia, possiamo iniziare a immaginare una nuova dimensione esistenziale che in questo momento della nostra storia potrebbe acquisire connotati “salvifici”.

La nostra “guarigione”, se così la possiamo chiamare, non coincide però con il ristabilimento dell’onnipotenza anteriore alla crisi che stiamo attraversando, ma con l’elaborazione della sua perdita, una trasformazione che è contemporaneamente congiunzione, sintesi e ampliamento dello spazio immaginativo/creativo. Profondità e superficie devono mescolarsi, al fine di generare una nuova forma di abitare contemporaneamente il razionale e l’irrazionale e che può nascere solamente dentro noi stessi.

ABSTRACT

Un conflitto doloroso ci caratterizza in quanto uomini moderni: ci sentiamo lacerati, estirpati dal grembo della natura, eppure ricordiamo un lontano sentimento di completezza, di unità originaria che sentiamo di aver vissuto “altrove”, nel tempo o nello spazio. É questo il nostro fondamento conflittuale, sempre più esasperato: Il desiderio d’infinito in un corpo finito ed una mente che può spingersi oltre e pensare l’immensità, provare nostalgia per la totalità perduta descritta dai poeti e presente nei miti di tutti i tempi.

Il grande mediatore, tra noi e l’infinito che ci abita, tra noi e la nostra “follia” è, da sempre, l’amore che unisce due essere umani che è anche contemporaneamente il grande traduttore di quel linguaggio non verbale, ignoto a molti, non codificabile con gli strumenti della ragione. Innamorarsi significa aprirsi alla follia di trascendere se stessi. Chi entra in una storia d’amore non esce mai come prima, qualcosa accade in mezzo alla tempesta dei sentimenti, qualcosa il cui fine ultimo è ricucire la lacerazione e ricomporre l’antica unità. In questo senso l’amore è “maieutico” ed è catalizzatore di profonde trasformazioni.

ABSTRACT IN INGLESE

A painful conflict characterizes us as modern humans, we feel torn, uprooted from the womb of nature, yet we remember a distant feeling of wholeness, of original unity that we feel we experienced “elsewhere,” in time or space. This is our conflicting foundation, increasingly exasperated in modern man: The desire for infinity in a finite body and a mind that can push beyond and think immensity, feel nostalgia for the lost wholeness described by poets and present in myths of all times.

The great mediator, between us and the infinite that inhabits us, between us and our “madness” is, since time immemorial, the love that unites two human beings that is also simultaneously the great translator of that nonverbal language, unknown to many, not codifiable with the tools of reason. To fall in love is to open oneself to the madness of transcending oneself. Whoever enters a love affair never leaves as before, something happens in the midst of the storm of feelings, something whose ultimate goal is to mend the tear and recompose the ancient unity. In this sense, love is “maieutic” and is a catalyst for profound transformations.

KEE WORDS: Conflitti, Gregory Bateson, Richard Tarnas, C. G. Jung, simbolo, trascendenza, solastalgia, coniunctio oppositorum, psiche e natura

Conflicts, Gregory Bateson, Richard Tarnas, C. G. Jung, symbol, transcendence, solastalgia, coniunctio oppositorum, psyche and nature

AUTORE

Virginia Salles ha studiato psicologia alla Sapienza, a Roma, dove vive e lavora. Psicoterapeuta individuale e di gruppo, di formazione junghiana è specializzata in e con Stanislav Grof. E’ autrice dei libri Agua scura edito da Di Renzo Editore, 2005; Mondi invisibili. Frontiere della edito da Alpes Italia srl, 2013; Spazi oltre il confine. Temi e percorsi della psicologia del profondo tra C. G. Jung, e la Cabalà (Alpes Italia, 2015) e di numerosi articoli sulla psicologia analitica e transpersonale (sito web: www.virginiasalles.it).

AUTHOR

Virginia Salles has study psychology in Rome, where she currently works and studies. An individual, and group, Jungian therapist, she has specialised in transpersonal psycholotherapy, and holotropic breathing with Stanislav Grof. Author of “Agua scura” published by Di Renzo Editore, 2005, “Mondi invisibili. Frontiere della psicologia transpersonale” published by Alpes Italia, 2013, and “Spazi oltre il confine. Temi e percorsi della psicologia del profondo tra C. G. Jung, e la Cabalà” published by Alpes Italia, 2015, and of numerous articles on anatiytical and transpersonal psychology. (web site: www.virginiasalles.it).

1 W. James, Le varie forme dell’esperienza religiosa, Edizioni Morcelliana, Brescia, 2001

2 Tarnas R. (1991), A epopeia do pensamento ocidental, Bertrand Brasil, Rio di Janeiro, 2001, p. 468, T.d.A.

3 Ibidem, p. 470, T.d.A.

4 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi edizioni, Milano, 2000

1 Levi-Bruhl L., L’anima primitiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1990

2 Grof S., Oltre il cervello, Cittadella Editrice, Assisi, 1988

3 Gli uomini coraggiosi che ascoltano il richiamo di Iemanjà e “muoiono nel mare, lottando contro i flutti”, possiedono la Dea e viaggiano con Lei nelle terre senza fine e conoscono “tutti i segreti del mondo”.

4 Guimaràes Rosa, J. (1969), Paramo, in Estas estorias, Editora Nova Fronteira, Rio de Janeiro (traduzione dell’autrice).

5 Ibidem.

6 Otto R. , Il sacro, Editore SE, Verona, 2009

7 Neumann E., La grande madre, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1981



1 Nietzsche F.