Le radici profonde della violenza

 

                Le radici profonde della violenza 

                            

    Cerco di colpire la punta del naso del mio avversario perché cerco di ficcargli l’osso nel cervello. 
               Mike Tyson

 

Ci sono state occasioni nelle quali l’aggressione fisica non è stata così grave quanto l’oppressione psicologica sofferta dalla popolazione nera durante l’apartheid. È una tortura psicologica impossibile da descrivere a parole. 

                                                                                                                   Nelson Mandela    

Se pensiamo alla violenza, ci vengono in mente le cruenti scene di sangue riportate quotidianamente dai media, ma qualcosa di più sottile ed ugualmente pericoloso emerge  quasi sottovoce nel silenzio ovattato del setting terapeutico. Qualcosa che sta nell’aria che si respira, un’atmosfera più che un singolo episodio, inserita in una “trama” che si costruisce nel tempo. C’è un termine in inglese che descrive molto bene questa atmosfera tossica: gaslighting, che deriva da un’opera teatrale del 1938, Angel Street, di Patrick Emilton, successivamente trasformata in un film: Gas light (in Italia Angoscia) con Ingrid Bergman, regia di Georg Cukor. Un dramma psicologico basato su un insano rapporto coniugale: la donna viene spinta alla pazzia dal marito, il quale, attraverso un gioco manipolatorio di accensione delle lampade a gas (gas light, appunto) o spostando gli oggetti e contemporaneamente negando ciò che sta avvenendo, porta la moglie a dubitare delle proprie percezioni fino a impazzire.

La violenza in questo caso è sottile, quasi invisibile,  ma continua nel tempo, per mezzo di piccoli episodi  irriconoscibili come tali. Il marito, presentandosi  come vittima delle strane percezioni della moglie, attraverso distorsioni nella comunicazione, le invia messaggi contrastanti, insinuandole dubbio e confusione dagli effetti devastanti. La donna, complice inconsapevole del marito/aggressore e incapace di riconoscere la violenza stessa, raggiunge lo stato limite dell’incapacità di intendere e di volere. 

Siamo abituati a pensare che sia molto più grave quella forma di violenza che lascia un segno visibile sul corpo mentre, in realtà, le conseguenze a lungo termine della  violenza psicologica – esercitata attraverso maltrattamenti, comunicazioni perverse, accuse ingiustificate, minacce, istigazione  al suicidio, isolamento (il deserto che l’aggressore crea intorno alla vittima), manie di controllo, insulti, svalutazione, derisione, stalking, gelosia immotivata – sono ugualmente distruttive. In famiglia, per esempio, l’ostilità mascherata, l’invadenza dei genitori nei confronti dei figli,  la seduzione, la manipolazione etc…  si ritrovano nelle storie di molti adolescenti disadattati ed autori di reati gravi.

Nelle relazioni tra adulti l’aggressività è generalmente finalizzata alla preservazione di chi la mette in atto (l’aggressore) e dei suoi confini: una reazione al fatto che l’altro, la vittima, diventa l’oggetto delle proprie  proiezioni. Quando per esempio il partner o altro membro della famiglia diventa ricettacolo della proiezione dell’Ombra – di tutte le caratteristiche che la persona non riconosce o non riesce ad accettare di se stessa – questo finisce per diventare “la ferita”, un’immagine speculare in negativo o un ostacolo che si frappone tra la persona e  i suoi obiettivi personali. A volte, l’incarnazione del Male stesso. In questo caso non c’è vera intenzione di nuocere o di umiliare l’altro, semplicemente la comunicazione viene viziata da scopi diversi dalla comunicazione stessa e  l’altro cessa di esistere. Comunicazioni perverse dunque, ovvero la negazione della comunicazione. Esempi di comunicazioni perverse si trovano nei libri di Kafka: Il processo, Il castello, La metamorfosi, storie emblematiche di un discorso mancato, viziato, là dove le domande non ricevono mai risposte che non siano deformate, né trovano un orecchio disponibile ad ascoltarle. Dinanzi a questa non comunicazione ci si sente isolati e spiazzati. Invisibili. La comunicazione autentica, al contrario, non isola le persone, ma genera nutrimento emotivo, conferma il nostro sentire e l’esperienza che abbiamo del mondo e  dell’Altro.

Negare qualcosa che sta avvenendo è un comportamento tipico del gaslighter  che induce  la vittima, attraverso un lento processo di avvelenamento psichico, a mettere in dubbio le sue percezioni, il suo stesso sentire ed a dissociarsi da se stessa. Nel linguaggio tecnico definiamo “doppio legame” questa forma perversa e dolorosa di relazione descritta da Gregory Bateson per la prima volta nel famoso saggio Verso una teoria della schizofrenia. Nel doppio legame la persona, proprio come nel film gas light è presa in una situazione in cui l’altra persona che partecipa alla relazione, con la quale ha un coinvolgimento emotivo, comunica due ordini di messaggi in cui uno nega l’altro (solitamente il messaggio verbale è in contraddizione con quello non verbale: mimica facciale, tono della voce, postura, comportamenti, etc…). Questa modalità comunicativa, vera e propria violenza psicologica, tende a disconfermare il mondo interiore dell’altro, la sua stessa esistenza ed a provocare di conseguenza una profonda scissione interiore.

Il sogno di Alice, una donna di 45 anni è emblematico di una situazione nella quale la verità viene negata: la sognatrice è bambina e va con il padre in macchina in un negozio a comprare caramelle, ma poi vede che non comprava caramelle, ma trucchi da donna.

Mistificazione e disconferma sono ingredienti indispensabili nella violenza psicologica. Mistificare in senso attivo significa confondere, mascherare quello che sta succedendo mentre nella disconferma viene negata la stessa esistenza dell’altro, attraverso la negazione della sua realtà interiore: sensazioni, sentimenti, percezioni. Ciò che viene implicitamente comunicato è “tu non esisti”.

Nel caso di Alice, la violenza della comunicazione distorta tra padre e figlia tende a coprire un altro tipo di violenza di natura sessuale, in una sorta di aspirale crescente di violenza su violenza.

Dinanzi al paradosso, alla contraddizione tra ciò che si percepisce e si sente e ciò che viene affermato verbalmente, il bambino impara a negare i suoi sentimenti e sensazioni, tutto il suo sentire ed a reagire solamente agli stimoli che provengono dal mondo esterno. I rapporti che si fondano su questo tipo di comunicazione negata non possono modificarsi nel tempo, rimangono stagnanti fino a fare smarrire completamente, a chi li subisce, la via di accesso al proprio mondo interiore. A questo punto la vittima può “funzionare” soltanto indossando una maschera.

Si trova a passeggio in un quartiere con tante casette uguali, tutti vanno a visitare la loro famiglia di origine (famiglia, stando all’associazione della sognatrice =  emozioni non espresse = segreti). Si trova in un fienile con un uomo e c’è un grande oblò rotondo da dove entrano i raggi di sole. Lei è appesa ad una corda e cerca di saltare fuori dall’oblò verso il sole, ma non riesce e nei tentativi cade per terra.

 Si trova nella casa dove viveva da bambina, sa che nella casa ci sono stanze murate e lei abbatte i muri con un martello e trova un baule con i maglioni che indossava quando aveva 13 anni. Trova nidi di vespa, una vespa le morde il dito anulare, là dove c’è la fede nuziale. Prova dolore e per staccare la vespa deve togliere la fede.

Mentre commentava un episodio di violenza su una bambina di cui è venuta a conoscenza e che l’ha molto sconvolta, Alice ha una reazione esagerata: chiude gli occhi e si rannicchia tutta… poi emette un urlo e dice che non è giusto, non è giusto che una bambina di 4 anni subisca tutto questo… lo dice tra urli e singhiozzi e descrive una scena nella quale c’è un uomo vestito da prete, con il colletto bianco, ma non vede il suo volto.

Sogna la terra che si apre ed emergono reperti archeologici.

Nei casi di violenza sessuale all’interno di contesti religiosi come una chiesa, per esempio, che ha come principio fondamentale la negazione del corpo e della sessualità, l’ambivalenza raggiunge livelli insostenibili per la psiche del bambino/a e le conseguenze sono devastanti: l’immobilità, la scissione, l’identificazione con la maschera, la perdita della vita interiore, l’alienazione.

 

E’ emblematico il caso di Vittorio 38 anni, che è stato iniziato alla omosessualità all’interno di un oratorio che frequentava insieme alla sua ragazza, dove aiutava il sacerdote nelle funzioni religiose. Oggi, gay dichiarato, non riesce a stabilire vere e proprie relazioni affettive  che vadano oltre rapporti puramente fisici e occasionali. Allo stesso tempo, devoto alla sua chiesa e ben inserito negli ambienti religiosi – verso i quali si sente debitore per avergli dato la possibilità di studiare e raggiungere i vertici della carriera nella quale si trova ora – non riesce a guardare con la dovuta obiettività e senso critico la terribile violenza subita all’interno di questi stessi ambienti da parte dei suoi “benefattori”.

 

Sogno ricorrente di Vittorio è la vista dell’acqua che sembra pulita, ma lui sa che non lo è. E non si immerge.

Si trova in un Hotel e ha un rapporto sessuale fine a se stesso. Un mostro maschile lo prende per le gambe e lo immobilizza.

Un giorno il marito di Alice (che lei descrive come anaffettivo) le dà uno schiaffo senza alcun motivo… lei rimane annichilita nel sentire, dopo, la sua voce dolce: “mi dai il bacio della buona notte?”

Sogna un cadavere che galleggia in una piscina a casa sua.

Solamente attraverso un profondo e doloroso percorso interiore e la consapevolezza che ne consegue ci sentiamo autorizzati a vedere Il bambino imprigionato dentro di noi, ad ascoltare finalmente il suo urlo finora soffocato. Solo allora possiamo finalmente comprendere quell’estrema necessità di negare il dolore fino alla scelta distruttiva dell’autoimmolazione.

Alice mi dice di aver passato in rassega tutti gli uomini che frequentavano casa sua quando era bambina, ma non riesce a capacitarsi. Dice di sentire una grande inquietudine e improvvisamente tutto il corpo si irrigidisce e inizia a tremare forte, le fanno male le gambe, il petto, il torace, la gola, poi un tremore sempre più violento, inizia a piangere e a urlare: MAMMA, MAMMA!!!. A fine seduta era ancora scossa, va fuori in giardino, ha voglia di correre….

Difendersi significa corazzarsi, opporre resistenza, non lasciarsi scalfire. Mentre la controparte della difesa è l’amore, in quanto “lasciarsi penetrare”, aprire le porte, superare i confini, come la freccia che ci trafigge nel mito di Eros.

 

Dopo un lungo periodo di rigido controllo, là dove ogni cosa era vagliata dal filtro della razionalità prima di poter essere ritenuta degna di essere espressa, Alice inizia a decodificare i messaggi  dal suo mondo interiore, inizia a  riscoprire il valore di quello che sente, delle proprie emozioni e intuizioni, di ciò che il corpo saggiamente le comunica. Lo ascolta finalmente, quel corpo afflitto da una grave malattia e riesce così a cogliere tutto il significato di un mondo femminile negato, ferito di ferita mortale. Il cancro, secondo Thorwald Dethlefsen[1] è “amore pervertito”, amore non vissuto che in un certo senso precipita, all’ombra della coscienza, ad un livello più denso, materiale.  

Si trova in un paese medio orientale, imprigionata in uno spazio a forma diagonale con il soffitto molto alto. Vede il suo pube che si spacca in verticale ed esce tanto sangue e poi vede qualcosa come una spada di carne con la punta rotonda.

 

Spesso la capacità di dominarsi e di trattenersi è incoraggiata e considerata, in alcune famiglie come quella di Alice, una virtù. Le emozione non possono essere espresse, non  fluiscono. Condizione questa che si tramanda da generazioni. Ma le emozioni non vissute non si volatilizzano, rimangono dietro le porte chiuse nel nostro mondo interiore e in molti casi scendono, come descrive Dethlefsen, ad un livello meno sottile, si incarnano nel nostro corpo, nei muscoli, nei tessuti, nelle viscere. In un ambiente benevolo e protetto come il setting terapeutico,  la persona può finalmente permettersi di ascoltarle, di riconoscersi e di destreggiarsi fra i propri sentimenti ed emozioni, senza più paura. Tutto il mondo emotivo di Alice che una volta era demonizzato come qualcosa di proibito, oggi acquista valore all’insegna di una nuova consapevolezza,  del suo Sentire. Il corpo sa… è lui, più che la sua testa, connesso all’essere primordiale,  alla Mater-ia, è lui il custode della verità.

 Lei e il marito in macchina con una ranocchia (metamorfosi).

Cammina giù in discesa accanto ad una amica. La discesa si fa sempre più ripida e va a finire nel mare. E’ un mare verde, trasparente con la sabbia dorata. Fa un tuffo e si sente in pace.

Questi sono solo alcuni appunti, frammenti di un percorso terapeutico, nel quale il corpo, contenitore di segreti inviolabili, ha avuto un ruolo determinante in tutta la sua furia  ribelle.

Marcel Proust soffriva di asma. Sua madre, da quanto emerge dalle sue lettere, si preoccupava molto di lui, voleva decidere fin nei minimi particolari tutto quanto lo riguardava e voleva fare di lui il figlio di cui  aveva bisogno (asma=respiro soffocato= “chiedo ARRIIAA!!!”). Non mi sorprende che lui non riuscisse a liberarsi da tanto controllo e che solamente dopo la morte della madre riuscì a pubblicare le sue acute osservazioni critiche al mondo borghese, al quale lei apparteneva ed a descrivere l’universo dei suoi sentimenti ed emozioni più profonde.

 

Viola, 43 anni, vittima di violenza  fa il seguente sogno: sta visitando un sito archeologico, e deve seguire un percorso diverso, di solito vietato al pubblico. Ci sono altre persone, ma in particolare un uomo le vuole  fare seguire proprio questo percorso. Le spiegano che lungo le mura ci sono iscrizioni antiche e, siccome quello era un posto frequentato da bambini, ci sono soprattutto incisioni di giochi e scene di sesso. Percorre ancora qualche metro e si trova dinanzi una voragine… la paura del vuoto la lascia senza fiato.

 

La violenza fisica, in particolare quella sessuale è tra gli elementi più spinosi e delicati che emergono durante un percorso terapeutico, quelli più soggetti a muri di resistenza a volte insormontabili. I “segreti di famiglia”, guardiani dell’immagine di famiglia “per bene” , a volte persino “perfetta”, costruita dall’analizzando negli anni, sono duri da districare e alcune volte rappresentano una grande zavorra durante il percorso di autoconoscenza. Ma ogni coraggiosa presa di coscienza di questi segreti  scioglie  l’energia imprigionata nella rimozione, spalanca le porte di accesso al mondo interiore e trascina con se un sentimento indescrivibile di liberazione con conseguenze molto positive dal punto di vista esistenziale, creativo e relazionale.

 Si trova in un luogo sotterraneo, deve fare pipì e un uomo la accompagna al bagno, si tira giù le mutandine per mettersi sul W.C. L’uomo si avvicina, le mette una mano sulle spalle e le guarda morbosamente i genitali, che non sono da bambina, ma da adulta.

La presa di coscienza che ne consegue con tutto il suo dolore, favorisce la congiunzione di quelle parti di sé  finora scisse e inconciliabili: il corpo e l’anima.

Si trova ad una mostra d’arte e sulla locandina c’è uno slogan: “NON ESSERE PIU’ DUE PEZZI, TORNA UN PEZZO”. Sulla locandina è raffigurata anche la sagoma di una testa umana, fatta con lettere di un puzzle.

Mirella,  30 anni, vittima di violenza psicologica, sogna di essere andata a ballare ma invece che in una sala da ballo si trova in una casa di prostituzione.

Una donna sfregiata da un gruppo di uomini, ma li guarda bene e vede che non sono uomini ma burattini.

 

La profonda ferita esistenziale espressa in questo sogno con “lo sfregio sul viso” è un’immagine del doloroso sentimento di umiliazione e “nullificazione” subìto da molte donne vittime di violenza.

 

Le radici profonde della violenza sulle donne: una visione transpersonale

 

Quando parliamo di violenza, quella fisica in particolare, parliamo generalmente di violenza sulle donne. Culturalmente e storicamente la violenza  è associata a vittime femminili: un mondo sommerso e muto fino a non molto tempo fa, fatto di orrori domestici, denunciato dal movimento femminista ed assimilato dalla coscienza collettiva negli ultimi decenni. Ma perché è la donna il bersaglio privilegiato di tanto odio omicida e di tanta violenza?

Veniamo al mondo separandoci da un corpo femminile e questa esperienza archetipica di separazione,  la nascita appunto, rappresenta secondo alcuni studiosi, Otto Rank in primis, il trauma e il dolore più grande dell’essere umano.

Le antiche tradizioni spirituali considerano l’esperienza della nascita come l’abbandono della nostra “natura divina”, cioè del nostro essere infiniti e senza confini. “Separazione” che  viene definita come una  ferita esistenziale che va lentamente trasformandosi in un dolore indescrivibile, “il dolore senza nome”: una sete di infinito e lo struggente desiderio di qualcosa che non sappiamo ben definire.

nel suo studio approfondito sui vari stadi della nascita, parla di una lotta titanica intrapresa dal nascituro con il corpo materno, attraverso il canale del parto (Terza matrice perinatale) che accresce sempre di più il suo senso di delimitazione e di confinamento in una dimensione corporea e che ha come esito finale la nascita in quanto individualità separata e la formazione dei confini dell’ego: i confini tra sé e il mondo.

 

Le persone che sperimentano di nuovo questa lotta archetipica attraverso una profonda terapia esperienziale, parlano del dolore viscerale e diffuso che si prova nel prendere forma umana. Dicono di sentirsi tagliati fuori dalla loro vera natura e che in qualche modo la nascita li ha strappati via da quel senso di totale libertà e di unità e li ha intrappolati in un corpo individuale e materiale. Mentre attraversano il canale del parto si sentono sempre di più delimitati e confinati, come se questo passaggio fosse la porta che dal mondo sconfinato della spirito si apre alla dimensione personale/materiale. D’ora in poi la nuova condizione esistenziale di “separatezza” diventa una componente propria della natura umana.

 

La grande guerra

 La grande guerra interiore, descritta da Grof, quella combattuta dal nascituro contro un corpo femminile per venire alla luce come individuo “separato”, presenta risvolti  insidiosi. Se subiamo per esempio, violenza di qualsiasi tipo, sessuale, fisica o psicologica, questo senso di separatezza/isolamento si acuisce, diventa ancora più profondo e difficilmente eliminabile. La violenza qui  va intesa come un’invasione dell’integrità fisica, sessuale, emotiva, intellettuale o spirituale, una intrusione attraverso i confini che ci definiscono nella nostra unicità/identità.

La sequenza esperienziale denominata da Grof “Terza matrice perinatale” o “la lotta di morte e rinascita”, relativa all’attivazione del secondo stadio clinico del parto – quando la cervice si dilata e permette il passaggio graduale del nascituro attraverso il canale del parto – acquisisce importanza particolare nel nostro discorso per la sua stretta relazione con gli aspetti più violenti e distruttivi della natura umana che si annidano nelle profondità della psiche: la possibilità di una via di uscita che si presenta al nascituro con l’apertura della cervice, attiva in lui un’intensa lotta per svincolarsi dalla stretta mortale con attacchi aggressivi  nei confronti del corpo della madre che lo schiaccia, lo soffoca e lo espelle e dal quale vuole liberarsi, e da parte del corpo materno nei suoi confronti attraverso le contrazioni uterine. Questo violento combattimento tra i due corpi provoca nel nascituro dolori, forti pressioni, soffocamento.

L’atteggiamento psicologico e l’aggressività dell’uomo contemporaneo nei confronti della Donna, della  Natura (Madre) da “controllare” e nei confronti della Terra (Madre) come oggetto di sfruttamento e di dominio, secondo alcuni studiosi (Grof, R. Tarnas, C. Bache, etc…) potrebbe essere vista in questa ottica, come un’ulteriore espressione dell’attivazione di questo aspetto della esperienza della nascita, della “Terza matrice perinatale” a livello collettivo.

 Quando durante una profonda terapia esperienziale viene attivato questo stadio della nascita, emergono temi ricorrenti e scene caratterizzate da estrema violenza: massacri umani e animali, guerre e rivoluzioni cruente, esplosioni atomiche, lancio di granate e missili, città messe a ferro e fuoco, lotte sanguinose, stupro. Il dolore e la paura legati alla percezione di un pericolo vitale imminente da parte del nascituro, lo schiacciamento e l’angoscia del soffocamento sperimentati durante questo passaggio, generano un’enorme quantità di aggressività che non potendo essere espressa nella situazione di confinamento in cui si trova il nascituro, rimane imprigionata nell’organismo come in un serbatoio di energia distruttiva sia dal punto di vista fisico che psicologico. Tutto questo processo culmina in una sensazione di completo annichilimento, immediatamente accompagnata da un inimmaginabile sentimento di liberazione, di salvezza, che viene vissuto contemporaneamente come una nascita fisica e una rinascita spirituale, secondo quanto descritto da molti persone che rivivono l’esperienza della nascita. Questa fase della nascita viene definita da Grof  “Quarta matrice perinatale”.

 

Gli studi di Grof sulle dimensioni perinatali dell’inconscio hanno illuminato di una luce nuova la genesi dell’aggressività, rivelando le profonde radici di uno degli aspetti più  pericolosi della natura umana: l’aggressività “maligna” descritta da Erich Fromm, che raggiunge una portata tale da non poter essere paragonata a quella presente nel regno animale.  Queste scoperte   collocano il fulcro dell’aggressività umana ad una profondità che non era mai stata immaginata in precedenza e mettono in evidenza quanto tale aggressività sia connessa a dinamiche inconsce mai elaborate, tali da impedire l‘accesso alla nostra identità più profonda che, stando alle esperienze che emergono dalla pratica di profonde terapie esperienziali, non è di natura aggressiva.

Le matrici perinatali[2], potenziate da tutte le esperienze emotive importanti della nostra vita, formano un fulcro energetico che agisce dall’interno[3], influenzando la nostra percezione del mondo ed il nostro comportamento nella vita di tutti i giorni, dando origine alla formazione di vari disturbi emotivi, psicosomatici e psicosociali. Su scala collettiva le matrici perinatali colorano con la loro tonalità emotiva le religioni, l’arte, la mitologia, le filosofie e si manifestano attraverso varie forme di psicopatologia sociale e politica. Jung sosteneva che l’influenza esercitata dagli archetipi dell’inconscio collettivo, trascende il comportamento individuale e può determinare gli eventi della storia umana. È questo, ad esempio, il caso dell’emersione, nella psiche collettiva del popolo tedesco, del mito del Ragnarok che, secondo Jung, avrebbe condotto alla grande catastrofe distruttiva della seconda guerra mondiale.

Grof ha esaminato una grande varietà di vignette, caricature, barzellette, illustrazioni di giornali stampati in tempo di guerra, così come frasi usate nel gergo politico e, attingendo anche dal materiale raccolto da altri studiosi (Lloyd de Mause, Carol Cohn, Sam Keen),  ha riscontrato una sorprendente abbondanza di metafore ed immagini relative alla nascita biologica. Capi militari e politici di ogni epoca, nei discorsi alle popolazioni civili finalizzati a giustificare l’intervento bellico e nelle dichiarazioni di guerra, utilizzano termini descrittivi dell’angoscia perinatale: il nemico è colui che “toglie il fiato”, opprime, soffoca, strangola il popolo.

Dal materiale raccolto in tempi di guerra sulla raffigurazione del nemico, analizzato da Grof, emerge una prevalenza di immagini cariche di angoscia perinatale, relazionate con le contrazioni uterine durante il travaglio della nascita. Il nemico appare come una tarantola,  una piovra insidiosa,  il drago da uccidere, il serpente boa che comprime e  strangola.

Particolarmente significativo fu l’uso del linguaggio perinatale in occasione dell’esplosione della bomba atomica di Hiroshima. All’aeroplano che lanciò la bomba è stato dato il nome della madre del pilota: Enola Gay. La bomba atomica è stata nominata the little boy ed il messaggio concordato per comunicare la missione compiuta era “il bambino è nato”.

Nella guerra sostituiamo con bersagli esterni questi elementi rimossi dell’inconscio.  Prima che l’uomo vada in guerra, quindi, esiste la guerra dentro l’uomo. Una proiezione di una dimensione profonda della psiche che potrebbe essere affrontata ed integrata in un altro modo, ad esempio attraverso una profonda terapia esperienziale.

 

I temi dell’aggressività sessuale, il rifiuto e l’oppressione del femminile (il corpo della madre) e la scatologia che emerge in tempi di guerra (campi di concentramento, città assediate etc…), mostrano una profonda analogia con le immagini della terza/quarta matrice perinatale, così come tutte le espressioni di sfruttamento, dominio, violenza verso il femminile da parte del maschile ed in generale tutte le forme di manifestazione di potere e di supremazia egoica.

La guerra quindi, la più feroce e violenta che esiste dentro ogni uomo, è quella che egli ha combattuto contro il corpo femminile, il corpo materno, per venire alla luce, nascere in quanto individuo separato e stabilire i propri “confini”. Quando, durante un’auto esplorazione profonda, ci connettiamo con l’esperienza della nascita biologica, non solo entriamo in contatto con un concentrato inimmaginabile di ferocia brutale, ma attingiamo anche a quel serbatoio di analoghe esperienze dolorose appartenenti alla specie umana, che sono conservate nella memoria ancestrale dell’inconscio collettivo (la nascita archetipica). La lotta di ogni essere umano per separarsi dal corpo della madre e stabilire i propri confini con tutta la violenza e distruttività ad essa connessa rimane, secondo le teorie di  Grof, il fulcro energetico di ogni aggressività umana. Tale lotta, proiettata nel mondo esterno, ha come manifestazione estrema l’azione bellica.

Le  teorie di Grof  hanno focalizzato e individuato l’enorme accumulo di violenza e distruttività stivate nell’inconscio individuale, ma soprattutto collettivo della nostra specie e collocato le radici dell’aggressività umana ad una profondità mai prima immaginata dai teorici che hanno tentato di spiegare questo fenomeno.

L’attivazione del livello perinatale della psiche, che fa emergere nella sua intensità tutta la violenza e distruttività della storia umana, potrebbe essere in un certo senso associata a quella tendenza innata della psiche a rivivere e superare i propri traumi per guarire se stessa e raggiungere un maggiore equilibrio, sia sul piano ontogenetico che filogenetico.   

Jung aveva preannunziato un cambiamento epocale della psiche contemporanea: una metamorfosi degli dei o principi fondamentali: la coniunctio oppositorum tra il principio maschile dominante e quello femminile che viene sempre di più affermandosi nel mondo attuale. Trasformazione questa che secondo Richard Tarnas è sempre stata la meta recondita di tutto lo sviluppo intellettuale e spirituale dell’occidente. Il desiderio più profondo della mente razionale  sarebbe quindi quello di superare questa grande frattura che affonda le sue radici nell’esperienza della nascita e di congiungersi col femminile interiore.

 

 

 

[1] T. Dethlefsen, R. Dahlke, Malattia e destino, Edizioni mediterranee, Roma, 1990

 

[2] Cfr. sull’argomento  l’ampia bibliografia di S. Grof

[3] Vedi concetto grofiano di COEX (Systems of Condensed Experience)