Il gioco d’azzardo – Una luce in fondo al tunnel

 

          “Ho sempre l’impressione, alle volte, di stare ancora girando in quello stesso vortice, e che, ecco, di nuovo sfreccerà questa tempesta, afferrandomi strada facendo con la sua ala ed io di nuovo salterò fuori dell’ordine e del senso della misura e mi metterò a vorticare, a vorticare, a vorticare…”

Dostoevskij

                Roulettenburg

                   Roulettenburg, la città nella quale Dostoevskij ambienta il suo libro Il giocatore, un libro carico di riferimenti autobiografici, è una strana città immaginaria nella quale prende vita un grande dramma umano traboccante di simboli e di spunti di riflessione. Scritto freneticamente in meno di un mese, il giocatore narra l’insana passione del personaggio Aleksej Ivanovic per il gioco d’azzardo con tutte le sue contraddizioni, voluttà e sofferenze. Personaggi che sembrano fatti di cartapesta ed un’atmosfera grottesca, fanno da sfondo alla straziante vicenda di Ivanovic, un folle lucidissimo, che trascina il lettore nei labirinti della dipendenza psicologica, quel “viatico tutto personale per l’inferno”, come lo definisce Germano Dalcielo.
                   Tutti i personaggi che sfilano dinanzi agli occhi del lettore, uno dopo l’altro, in questo teatro della degradazione umana, sono vittime designate di una qualche forma di addiction (dipendenza psicologica), più o meno adattate alla società in cui vivono. Personaggi che vengono lentamente risucchiati in un vortice di pensieri ossessivi, comportamenti compulsivi dai quali non riescono più a liberarsi.


Fulcro centrale del libro non è la sola passione morbosa di Ivanovic per il gioco d’azzardo, ma la dipendenza psicologica in quanto tale: la continua esposizione del personaggio principale a situazioni umilianti; “l’amore” del Generale per Blanche; Il rapporto che il francese, Blanche e la sua improbabile madre hanno con il denaro; il barone imprigionato nell’ipocrisia e nei suoi formalismi sterili; la dipendenza dei servitori della nonna etc. hanno caratteristiche molto simili a quella di una addiction al gioco o alla droga. Non solo dipendenza dal gioco quindi, ma da un comportamento, da un oggetto, da una relazione, con tutti i sintomi fisici/psicologici ad essa connessi.

In una società in cui le convenzioni definiscono ogni cosa, in un mondo senza bussola, privo di sentimenti autentici in cui nessuno è autore del proprio destino, dipendere da qualcosa come l’esito incontrollabile di un tiro di dadi o il tentativo stesso di indagare o indirizzare il Fato, acquisisce il sapore della sfida e del rischio. Forse della libertà. È l’inizio di una spirale perversa, di un tunnel in fondo al quale non c’è luce ed Il gioco diventa allora l’unico compagno di tutti i giorni, un antidoto allo squallore dei non-rapporti sociali e all’inevitabile solitudine, un costoso palliativo che ostacola il flusso naturale della vita. Nel linguaggio di Germano Dalcielo “un demone che non fa sconti”.-
“In primo luogo tutto mi apparve così sporco, in certo qual modo moralmente brutto e sporco…”, scrive ancora Dostoevskij.

Ciò che conta per il giocatore patologico ha ben poco a che fare con l’uso o la necessità del denaro, ciò che davvero conta è quell’altalena di emozioni, quello stato di frenesia ed esaltazione paragonabile a quello indotto dalle droghe: un desiderio così forte che può, in molti casi, indurre il giocatore a stare giorni e giorni senza dormire o mangiare, senza riposarsi… ed il baratro che gli si apre di fronte è il piacere masochistico di perdere, l’estasi della vincita insieme al terrore di abbandonarsi a questa follia autodistruttiva.

 

L’uomo come mezzo

 

             La passività del giocatore dinanzi alla Sorte, il venir meno di quella libertà responsabile dell’uomo padrone di sé, l’uomo che vive in conformità alla sua dignità personale e che tiene in pugno le redini del proprio destino, è uno degli elementi più drammatici del G.A.P. (Gioco d’Azzardo Patologico).
“Davanti a voi perdo tutto il mio amor proprio e la cosa mi è indifferente.”
                    Nelle parole di Dionigi Tettamanzi: “Il giocatore assume un ruolo di totale passività e la sua stessa soggettività scompare quasi del tutto dinanzi alla cecità della sorte” con la conseguente negazione del lavoro, dell’autodeterminazione, della qualificazione personale. Un gioco che riduce l’uomo ad un mezzo, proprio come un tiranno al cui ordine sottomettersi o un idolo al quale sacrificare ogni cosa, porta con sé la negazione di quella dignità personale dell’uomo espressa nella la famosa frase di Kant: “l’uomo è sempre e solo fine, mai mezzo”.

                     “Il gioco d’azzardo non possiede quell’abilita corrosiva e roditrice che hanno l’alcol e la droga nei confronti degli organi interni. Ne possiede un’altra, forse più diabolica e maliziosa, perché dilania l’anima e succhia via ogni alito di vita”, scrive Germano Dalcielo nel suo romanzo autobiografico.

                     E’ degna di nota la diffusa ipocrisia culturale e politica dello Stato nei confronti del gioco d’azzardo: da un lato denuncia la sua pericolosità e lo condanna, dall’altra lo legittima e lo sostiene, istituendo giochi, lotterie e scommesse. Un pericoloso “doppio legame”, in tutta la sua contraddizione e, direi, “schizofrenia”. E’ per questo venir meno alla sua doverosa responsabilità educativa – con la conseguente perdita dell’eticità ed umanità, che lo Stato dovrebbe garantire – che viene definito da molti “Stato biscazziere”.
 

 

           La bancarotta
Nel crescente coinvolgimento con il gioco o con qualsiasi sostanza o comportamento generatori di dipendenza, la persona affronta dentro di sé ogni sorta di difficoltà, pericoli e sfide che la portano fino all’estremo delle proprie forze. Invischiata in un rovinoso ciclo di dipendenza, la vittima di addiction, non riesce più a controllare il rapporto con l’“oggetto” scelto come risposta al suo problema. Sempre più inerme, pensa incessantemente a ciò che l’ha irretita, escogita qualsiasi modalità per ottenerlo, ma le azioni, le relazioni o la sostanza che sembravano portarle ciò che le mancava, la trascinano sempre di più in fondo al pozzo. Alla fine c’è il crollo, “la bancarotta spirituale”. Nel caso del giocatore, egli non riesce più ad ottenere denaro, viene minacciato dai creditori, rischia di distruggere le relazioni e di perdere il lavoro ed è costretto a deporre le armi ed arrendersi alla disperazione.

“Fu quella la prima notte che chiesi al Cristo di non farmi rivedere la luce del sole. Sarebbe stato solo un altro giorno all’insegna del fallimento, della frustrazione, della disperazione. Ero stanco. Stanco di vivere con quella spada di Damocle sul collo, quelle spire di serpente che mi soffocavano, quella pianta carnivora che mi succhiava piano piano. Se potessi mi strapperei via a mani nude il gene dell’azzardo dal cuore, dalla mente, dalle vene ,ma è un cancro su cui nemmeno la chirurgia può intervenire…” scrive Dalcielo.

E necessario arrivare alla “bancarotta spirituale”, al fondo dell’abisso per capire che non sono il gioco o la “sostanza”, la “cosa” così ardentemente desiderata. Forse qualcos’altro di più profondo e soggettivo di una sostanza o di un tavolo da gioco. Solamente quando tocchiamo questo fondo, qualcosa ci obbliga a cambiare e possiamo finalmente cercare il vero oggetto della nostra sete più ardente.

 

 

Il desiderio insaziabile

 

C’è un passaggio molto significativo nel libro di Dostoevskij: “…stranamente dal momento stesso in cui il giorno prima avevo toccato il tavolo da gioco e avevo cominciato a rastrellare mazzette di denaro, il mio amore era come passato in secondo piano. Questo lo dico adesso: ma allora ancora non avevo notato tutto ciò in modo chiaro. Possibile che fossi effettivamente un giocatore, possibile che effettivamente… amassi Polina in modo così strano?…”
E ancora: “Provavo soltanto un piacere incredibile dovuto al successo, alla vittoria, al potere… non so come esprimermi….”

E’ sorprendente come la roulette prenda improvvisamente il posto di Polina nelle passioni di Ivanovic. E’ proprio come se la donna di cui egli era innamorato e lo stesso denaro perdessero insieme tutto il loro fascino e lasciassero spazio ad un’unica ossessione: il piacere vissuto nell’attesa della vincita, un piacere la cui ricerca diventa in seguito il fulcro della sua vita. Più tardi, nel suo sperperare il denaro, Ivanovic prende coscienza della sua estrema solitudine e del suo unico, non ricambiato, “legame passionale” con il tavolo da gioco.

Ho ascoltato molti alcolisti, tossicodipendenti, giocatori e tutti parlano di una profonda solitudine, di un vuoto interiore e di non essersi mai sentiti “a casa” in questo mondo. Parlano di un inesprimibile desiderio alla base della loro vita, qualcosa che potrei definire nostalgia: il bisogno di entrare in contatto con la propria “sorgente interiore” il cui richiamo lo hanno sentito in qualche raro momento della loro infanzia, nel quali hanno rivolto lo sguardo verso il loro mondo interiore.

Cristina Grof nel su libro Guarire dalla dipendenza, racconta la sua personale esperienza di dipendenza da alcol, parla del “dolore senza nome”, descritto nella letteratura spirituale e del suo anelito verso una profonda esperienza spirituale. Per Cristina la dipendenza, qualsiasi forma di dipendenza, nasce da questa inquietudine esistenziale, da quel sentirsi tagliati fuori da se stessi, dalla sorgente di ogni ispirazione e dalla “solitudine cosmica” che ne deriva.

In una lettera a Bill Wilson, cofondatore degli alcolisti anonimi, riferendosi ad un suo paziente alcolista, Jung scrive: “Il suo desiderio insaziabile per l’alcool era equivalente, a un livello inferiore, alla sete spirituale di completezza a cui il nostro essere anela, ovvero, per dirla con linguaggio medievale, all’unione con Dio”. E ancora: “in latino alcol si dice spiritus. Dunque, la stessa parola viene usata per la più elevata esperienza religiosa e per il più corruttore dei veleni. Una formula utile quindi è : spiritus contra spiritum.

Il programma dei 12 passi ideato da Wilson contiene molti elementi dei vari sistemi spirituali tradotti in linguaggio occidentale, una pratica che riguarda il senso profondo della vita e della morte. Nel terzo passo del programma si legge: “…abbiamo deciso di rimettere la nostra volontà e la nostra vita nella mani di Dio, così come noi lo intendiamo”, un passaggio che richiede la rinuncia al controllo da parte del “piccolo io” e l’abbandono, la resa incondizionata ad un “Potere Superiore”.
Questo ardente desiderio per qualcosa di indefinibile appartiene profondamente a tutti noi così come il bisogno di “significato”, di trovare una risposta al mistero dell’esistenza. Per gli alcolisti, i tossicodipendenti, i giocatori d’azzardo questa ricerca non è semplice, sbagliano direzione e si perdono nel vicolo cieco del dolore e della disperazione.

 

 

Il richiamo del sacro

 

La battaglia dell’intossicato contro ciò che lo irretisce è per molti versi una sfida che molti esseri umani affrontano, portata all’esasperazione. Molti anni fa, cercando risposta alle mie domande esistenziali mi sono imbattuta nella psicologia transpersonale e sono rimasta affascinata dal nuovo orizzonte che allora si apriva dinanzi a me e che mi offriva una chiave di comprensione più vasta della natura umana da quella da me conosciuta fino a quel momento, in cui oltre ai problemi fisici, familiari, sociali, psicologici, etc. veniva considerato anche il bisogno spirituale. Ho potuto osservare il mondo, gli altri, me stessa, da un’ottica molto più ampia. Compresi allora, attraverso la mia esperienza personale, confermata poi da quella dei miei analizzandi, l’importante legame esistente tra spiritualità e molti sintomi apparentemente incomprensibili, in particolare le varie forme di dipendenza.

Freud, nel suo lavoro Dostoevskij e il Parricidio (1928), analizza l’evoluzione del giocatore compulsivo descritto dallo scrittore russo e teorizza un legame fra la sessualità e la tensione attivata e scaricata attraverso il gioco, in particolare il ruolo del masochismo nella dinamica psichica delle vittime di addiction al gioco d’azzardo. Molti altri psicoanalisti si sono interessati alla psicologia del giocatore d’azzardo; tra questi Valleur e Bucher (1999) sostengono che il giocatore continuerebbe a domandare al Fato, come se fosse un oracolo, cercando una risposta sul valore della propria vita: una sorta di sottomissione ed abbandono al verdetto del destino e allo stesso tempo un tentativo di riprendere il controllo della propria vita.

Questi aspetti, sicuramente presenti nelle storie delle vittime di addiction, non sono però sufficienti a comprendere pienamente la dipendenza psicologica, quel suo tendere verso un determinato tipo di esperienza, il suo “perché”. Una visione riduttiva che svilisce e rende sterile il “sintomo”, irretendolo in una “causa” legata al passato e privandolo del suo movimento propulsivo, del suo “progetto”, ma soprattutto del suo significato esistenziale. Il punto di vista della psicoanalisi tralascia un aspetto molto importante che riguarda la “sete di infinito” che soggiace a quella smania per l’”oggetto” della dipendenza nelle vittime di addiction. Tralascia la domanda esistenziale dell’essere umano dinanzi all’Ignoto che si cela dietro il “sintomo”, il bisogno di dare un senso alla propria esistenza – come nel caso dell’alcolista citato da Jung: lo “spiritus contra spiritum”- quel bisogno di Totalità insito nella natura umana, a cui le varie forme di dipendenza sembrano rispondere in un modo pericolosamente fittizio.

Credo, con Cristina Grof e Jung, che dietro ad ogni forma di dipendenza si celi in realtà una profonda nostalgia per la nostra vera identità perduta, che è di natura spirituale, come sostiene la Cabalà e tutte le nostre antiche tradizioni sapienziali. Una sorta di “richiamo del sacro” che le persone sensibili scorgono in ogni riflesso dello spirito nell’Arte e nella Natura, intorno e dentro di sé: la brama di vivere un’esperienza non chiaramente definita di Unità e di libertà.

“All’interno di una luce gialla vedo un puntino rosso che si ramifica in tante linee rosse: è un uovo che lentamente si trasforma in un pulcino ed io sono questo pulcino. Sento la mia debolezza e la forza che devo fare per uscire dal guscio. Finalmente il guscio si rompe ed esco fuori sentendo la debolezza delle mie gambe. Lentamente cresco e divento un’aquila. Volo alto, mi sento libero, forte, potente. Vedo il mondo sotto di me, volo sempre più alto… ad un certo punto sento di perdere sempre di più le forze e cerco un punto giù nelle rocce per morire. Perdo lentamente le forze e muoio. Penso di aver vissuto la vita e la vita è così: la nascita, la crescita, la libertà, la vecchiaia e la morte. “E’ questa la vita ed è bella così. L’accetto.”

Questo è un sogno fatto da Francesco, un analizzando di 36 anni durante il suo percorso personale di abbandono della dipendenza da alcol e cocaina, sogno molto potente collegato proprio a questa ricerca di significato dell’esistenza. La forza spirituale dalla quale scaturiscono immagini cosi dense di significato è la forza interiore che ci rende consapevoli della nostra appartenenza alla Totalità e favorisce la “costruzione del ponte”: la connessione perduta con noi stessi, con gli altri e con il mondo che ci circonda. Stanislav Grof la chiama “il guaritore interno”, mentre dalle nostre tradizioni sapienziali e dallo stesso Dante viene definita Amore.

Come ci ricordano i 12 passi degli alcolisti anonimi e la letteratura spirituale, questa esperienza della Totalità viene definita “esperienza di Dio”, un’esperienza contemporaneamente emotiva e conoscitiva dell’Unita assoluta che sottostà a tutto l’esistente e della nostra appartenenza al “progetto cosmico”, insieme all’assunzione di responsabilità che ne deriva. S. Grof la considera “un diritto naturale di nascita di ogni essere umano”: un’esperienza individuale di espansione e di autorealizzazione che ha una risonanza collettiva e ci collega intimamente con “il Centro” della Vita in noi: con Dio, così come noi lo intendiamo.