Peccati e virtù nell’era della globalizzazione

Peccati e virtù nell’era della globalizzazione

Virginia Salles, Roma

 

Gli dei sono tutti morti.

(Nietzsche)

 

Chiamato o non chiamato, il Dio sarà presente.

(Epigrafe sulla porta di casa di Jung)

 

Dal Cielo alla Terra

Nei tempi moderni il punto focale della nostra meraviglia e della nostra indagine conoscitiva ha subito uno spostamento radicale, una discesa dal Cielo alla Terra che ha portato luce nelle tenebre della materia e oscurità là dove un tempo c’era luce spirituale. Gli antichi dei non hanno potuto sottrarsi alle lenti del telescopio e ai raggi “x” ed è comprensibile che siano crollati insieme ad un vasto e prezioso patrimonio di simboli.

Non più l’aldilà, quindi, la fascinazione delle vette o i miracoli delle sfere celestiali a indicarci la via, e nemmeno il mondo minerale con i suoi misteri alchemici né gli spiriti degli animali. Illuminati dalla scienza e dalla psicanalisi ci siamo liberati, in un certo senso, dalla stretta rete della tradizione religiosa, ma credo che sia altrettanto importante, oggi più che mai, liberarci anche dalla sua radicale cancellazione. Il problema attualmente più significativo non è tanto sapere se Dio è morto ma se l’uomo è ancora vivo e passibile di evoluzione1. Ora, ogni autentica ricerca di verità e di conoscenza non può prescindere dall’immersione nei nostri oscuri abissi interiori, che rappresentano per noi la fonte stessa della vita e che usiamo chiamare “inconscio”. L’ultima speranza sembra ora consegnata ai recessi interiori dell’uomo, diventato oggi, lui stesso, il vero oggetto della nostra indagine conoscitiva. L’ultimo mistero. L’uomo, è oggi il mistero cruciale. Questo spostamento del punto focale della nostra ricerca verso le profondità dell’animo umano, insieme alla sempre maggiore attrazione che l’uomo moderno prova per il proprio lato oscuro, pretende da noi “qualcosa” che non può essere più ignorata. Non sappiamo esattamente cosa, così come non sappiamo verso cosa ci si muove e meno che mai da cosa siamo messi in moto. Il Significato stesso della ricerca è anche qui, ancora una volta, qualcosa di assolutamente inconscio.

In questo percorso di conoscenza non è la società che deve guidare e salvare l’individuo, ma, come sostiene Erich Neumann2, esattamente il contrario: è proprio l’individuo che si è perso nella legge, che può e deve rinascere nella ricerca della propria identità e del Significato della sua presenza nel mondo.

Ed è proprio in questo spazio di oscurità che secondo Neumann risiede il rischio di catastrofe per l’Occidente, ma allo stesso tempo anche la possibilità di una trasformazione e di ogni suo futuro sviluppo. Anche se, sottolinea ancora Neumann, in un primo tempo appare senz’altro più evidente l’aspetto catastrofico di disastro e sconvolgimento.

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La coscienza e l’etica

Quando parliamo di “peccati” e quindi di atteggiamento etico è necessario distinguere tra una coscienza o etica autoritaria e una coscienza o etica interiore (umanistica). La coscienza autoritaria è la voce del collettivo, definita da J. A. Gaiarsa “la voce del coro” che corrisponde all’autorità interiorizzata dei genitori, dello stato, della religione (coscienza eteronoma o super-io freudiano). È sempre collegata all’idolatria ed è, per sua natura, un’etica alienata. È la coscienza figlia dell’antico Dio, che fu definito da Einstein “il Dio del terrore” e proclamato morto da Nietzsche. Molto diversa è la coscienza definita da Erich Fromm “coscienza umanistica” (autonoma) figlia di un Dio interiore, il Dio di Jung. È la coscienza-voce della nostra personalità totale che esprime le esigenze della vita e dell’evoluzione. È la coscienza che estrinseca le intenzioni del “seme”, della forza vitale in noi. Per la coscienza umanistica è Bello e Buono tutto quello che incoraggia la Vita, Malvagio è invece tutto ciò che la trattiene e la soffoca. La coscienza umanistica è la voce del nostro profondo Essere, il “Sé”, che ci riporta a noi stessi, per diventare ciò che potenzialmente siamo. Non obbedisce a un’autorità esterna, interiorizzata che sia, ma è una coscienza “responsabile” nel senso che è “rispondente” al mondo al quale appartiene come un essere vivente in relazione con altri esseri viventi, cioè come un essere umano interiormente attivo. L’etica autoritaria è invece estranea all’elemento vitale e sotto molti aspetti si contrappone all’etica della persona autenticamente religiosa. Ma cosa s’intende per “persona religiosa”? Quale è l’elemento che la definisce tale? La comune definizione di persona religiosa è quella della persona credente in Dio in quanto Essere supremo e sovrannaturale e che, come conseguenza della propria fede, è anche una persona dotata di una coscienza etica. Questa definizione trascura però l’essenziale, la qualità intrinseca dell’atteggiamento religioso: il fatto che questo non è fondato su un concetto (pensato) di Dio.

Uno dei dogmi basilari del Buddhismo Zen è che le parole (concetti) e la verità sono incompatibili, o quanto meno non esistono parole capaci di catturare la verità. Qualunque sia lo spazio verbale in cui si tenti di chiudere l’Essenza, essa resiste, scalpita… deborda. L’uso delle parole, secondo lo Zen, è intrinsecamente dualistico, quindi contrario alla Divinità. Ma lo Zen, anche se ci appare illuminante, autorevole e molto seducente, riesce a essere a volte anche provocatorio e irritante in tutta la sua anarchia e oscurità. Più che di religione quindi, come siamo abituati a intendere, sarebbe meglio parlare di “esperienza religiosa” e ciò che conta non sono le concezioni razionali che ne derivano, ma il substrato di esperienza umana che genera tali concezioni. La questione centrale che rimane allora è la seguente: l’esperienza religiosa è necessariamente collegata a un concetto di Dio? Nelle lingue occidentali non esiste un termine per definire questo substrato esperienziale, base di ogni “esperienza religiosa” che ha un suo particolare significato ed è caratterizzato dal sentimento di Unità e di Numinosità, così ben descritto da filosofi e mistici. Così la parola “religioso” finisce per diventare una parola molto ambigua, come ambigua è anche la parola “spirituale”. Allo scopo di evitare le sabbie mobili intellettuali e tutta l’ambivalenza che spesso suscitano parole come “religione” o “spiritualità” che possono essere interpretate in molti modi, in questo scritto farò riferimento solamente all’esperienza umana che riporta l’uomo alla propria fonte interiore, a quel sentire le “verità fondamentali” che sta alla base di un’etica autentica, sia dal punto di vista psicologico che filosofico, senza considerare se contenga, o meno, il concetto della Divinità.

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L’idea di Dio è per Fromm così come Teilhard de Chardin e Spinoza, il risultato di un processo evolutivo di purificazione graduale. E il “peccato” viene così, in un certo senso, “slegato” da concetti oscuri come il Male, la Malvagità o la Cattiveria umana e associato all’idea più comprensibile e moderna di “mediocrità”. L’uomo di Fromm non è un soggetto contrapposto al mondo per trasformarlo: è nel mondo in quanto “soggetto rispondente”, capace di creare se stesso in un costante processo di auto-trasformazione. Il mondo (gli esseri umani e la natura) non è semplicemente qualcosa che gli sta di fronte ma il mezzo attraverso il quale potrà scoprire, sempre più profondamente, la sua stessa realtà e quella del mondo in cui vive.

 

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Per Wilhelm Reich peccato significa rigidità, fissazioni nevrotiche che impediscono il libero fluire dell’energia vitale – dell’amore di Dio in noi – rigidità che impediscono il cambiamento e l’evoluzione verso l’Amore totale. Più profondo è l’abbraccio con la nostra natura interiore, più profondamente possiamo collegarci a ciò che ci circonda e la nostra integrità e la nostra “guarigione” interiore vanno di pari passo con l’integrità e la “guarigione” del pianeta in cui viviamo. “Peccato” significa allora divisione, separatezza, dentro e fuori di noi. Peccato è divisione tra noi e noi, tra noi e il mondo, tra noi e gli altri. Il fondamento dell’unità della specie umana non è che ogni uomo creda in un medesimo Dio ma che ogni uomo attinga alle risorse umane sepolte nelle profondità dell’anima e agisca naturalmente con Giustizia e con Amore.

 

L’esperienza x, l’esperienza interiore della dignità e della forza, la possiamo provare solamente quando usciamo da ciò che Reich definì “la trappola” che ci limita e c’impedisce di vivere e ci posizioniamo dal lato di fuori. Solo allora ci troviamo dinanzi all’esaltante profondità del nostro “Sé” e possiamo attingere alla nostra passione più ardente, alla trasparenza dell’essere e alla forza di vivere. All’unico e vero noi stessi. La tradizione ha nominato “anima” quel punto in cui l’uomo e l’Ignoto si sfiorano e che L’Artista ha magistralmente rappresentato nel cielo della Cappella Sistina. Là dove è possibile l’Unione e dove viene restituita alla parola “religione” il suo originario significato di “collegamento”, che non è parole, dogmi o regole di comportamento, ma autentica esperienza dell’Incontro.

 


Note

1 Con la parola “evoluzione” non mi riferisco al concetto darwiniano di evoluzione della specie, ma “all’evoluzione della coscienza” così come descritto da Ken Wilber o da Teilhard de Chardin.

2 Neumann, E., Psicologia del profondo e nuova etica, Moretti & Vitali Editori, Bergamo, 2003.

3 Jung, C. G., O Livro Vermelho, Editora Vozes Ltda, Petropolis, 2010, p. 230, T. d. A.

4 Noga Bloga: a cronica cotidiana de Noga Sklar, T. d. A.

5 Fromm, E., Voi sarete come Dei, Astrolabio, Roma, 1970

6 Jung, C. G., Il libro vermelho, Editora Vozes Ltda, Petropolis, 2010, p. 230, T. d. A.

7 Spinoza, B., Etica, Libritalia, Perugia, 1997, p. 238.

8 McGuire, W., Hull, R. F. C., a cura di, Jung parla. Interviste e incontri, Adelphi, Milano, 2002, p. 446.

9 Ibidem, p. 446.