Io e l’infinito
di Virginia Salles, Roma
(Estratto)
Non gode il mondo al modo giusto… finché non diventi intimo di quel nulla ombroso da cui è stato creato il mondo… finché il mare non ti fluisce nelle vene, finché non ti vesti di cieli e non ti incoroni di stelle…
(Thomas Traherne)
Ogni uomo ha due cuori: quello che batte dentro il petto e un altro molto più grande che è anche il cuore pulsante dell’universo. Molti passano tutta la vita tentando di connettersi con questo grande cuore e sono pronti a correre dei rischi, sono pronti anche a morire… sono questi gli uomini veramente liberi
Il dolore senza nome
Un’antica leggenda indù racconta di quando tutti gli uomini erano dèi. Questi però abusarono tanto della loro divinità che Brahma decise di privarli del potere divino e di nasconderlo in un posto dove fosse impossibile trovarlo. Fu così che il Signore degli dèi, riunitosi a consiglio con le divinità minori, disse: “Ecco ciò che faremo della divinità dell’uomo, la nasconderemo nel suo io più profondo e segreto, perché è il solo posto dove non gli verrà in mente di cercarla”. A partire da quel tempo, conclude la leggenda, “l’uomo ha fatto il periplo della terra, ha scavato, esplorato, scalato montagne e si è immerso nei mari alla ricerca di qualcosa che si trova dentro di lui”. Le nostre tradizioni spirituali affermano che tale stato di “amnesia cosmica” abbia inizio prima ancora della nascita. La separazione dalla nostra natura divina, dal nostro “Sé profondo”, secondo queste antiche tradizioni, è la nostra ferita esistenziale che va lentamente trasformandosi in un dolore indescrivibile, il “dolore senza nome”, quella sete insaziabile di infinito e un desiderio struggente di qualcosa che non sappiamo ben definire. Jung in molti suoi scritti descrive questo struggente desiderio che ci travaglia e lo considera un impulso verso la completezza, la totalità e l’elemento propulsivo del processo di individuazione, la forza dinamica che tende a unire l’io e l’inconscio. Durante gli stati non ordinari di coscienza attivati con la respirazione olotropica, può accadere di rivivere la propria nascita oppure lo stato intrauterino che viene descritto come un momento di indicibile beatitudine, libertà ed espansione, una esperienza oceanica del “senza limiti”. Stando alla descrizione di questi vissuti, il passaggio difficile e sofferto attraverso il canale del parto durante la nascita accresce sempre di più il senso del “limite” e di confinamento in una dimensione corporea, materiale. La nascita rappresenta quindi uno “spartiacque” e segna il passaggio dalla dimensione spirituale (transpersonale) al mondo materiale (personale).
La fontana abbandonata
In una lettera inviata a Bill Wilson, l’ideatore del “Programma dei Dodici Passi”, Jung, nel 1961, scriveva: “In latino alcol si dice “spiritus”. La stessa parola, dunque, viene usata per la più elevata esperienza religiosa e per il più corruttore dei veleni. Una formula utile quindi è: Spiritus contra spiritum”. Jung mette in relazione la sete dell’alcolista per l’alcol con un più profondo anelito dell’anima: il desiderio struggente di ogni essere umano di conoscere la sua vera identità, di trascendere i propri confini, unirsi con Dio e raggiungere la totalità. Un sintomo quindi che esprime una disperata richiesta di un percorso interiore verso dimensioni più animiche e spirituali, un bisogno impellente di iniziare una relazione con la fonte interiore, base e conferma del significato dell’esistenza e di libertà dai nostri “io” separati. La non soddisfazione di questa necessità viene definita dalla tradizione: “inferno”. Il percorso spirituale potrebbe rivelarsi quindi un potente antidoto non solo alla devastazione dell’alcol ma anche ad altre forme di dipendenza da sostanze, relazioni, gioco d’azzardo, cibo, potere etc. Il primo sogno portato in analisi da persone che soffrono di diversi tipi di dipendenza esprime spesso un’intenzione inconscia, una “richiesta” di tipo spirituale.
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Nel suo libro Guarire dalla dipendenza Cristina Grof definisce alcolisti e tossicomani “ricercatori spirituali” e analizza alcune tappe della terapia “I dodici passi” utilizzata dagli Alcolisti Anonimi nella cura della dipendenza. Cristina Grof, basandosi soprattutto sulla sua esperienza personale, traccia un parallelo tra i momenti fondamentali dei percorsi spirituali, così come sono stati descritti dalle diverse tradizioni, e le tappe principali del percorso dei “dodici passi” verso l’abbandono dell’alcol. Queste sono alcune parole del suo racconto autobiografico: “…In quei momenti ho intravisto i bagliori di uno stato di completezza in cui ciascun filo della mia esperienza sembrava improvvisamente congiungersi agli altri: tutto allora pareva andare a posto, ogni cosa acquistava significato… Ho trovato ciò che cercavo anche nell’oblio delizioso dell’alcol: i miei confini sparivano, la sofferenza svaniva e pensavo di essere libera… Finche l’alcol mi si rivoltò contro”1.
La bancarotta spirituale
Il programma terapeutico utilizzato dagli Alcolisti Anonimi riconosce una recondita aspirazione alla trascendenza dietro alla brama dell’alcol e definisce “malattia dell’anima” lo stato di chi è afflitto da qualche dipendenza. La “bancarotta spirituale” è il momento in cui si tocca “il fondo del pozzo”, momento cruciale che segna il limite ma anche una svolta nel comportamento autodistruttivo dell’alcolista. “Per adattarsi al nostro mondo secolare il bambino rinuncia alla sua estasi”, scrive Mallarmè. Questa rinuncia provoca un’immensa nostalgia, quella sete dell’anima per qualcosa di indefinibile descritta nei versi poetici e nella letteratura spirituale, l’impulso verso il contatto con la dimensione più profonda di se stessi, un moto evolutivo verso una coscienza più ampia e più completa. Quest’impulso, quando non ascoltato, può trasformarsi nei più svariati “sintomi” che vanno da un diffuso “mal di vivere” e dalla perdita del senso della vita fino alle sue estreme manifestazioni come le varie forme di dipendenza da sostanze. Il primo contatto con l’alcol o con ciò che si trasformerà nell’oggetto della propria dipendenza viene spesso descritto da chi fa uso di queste sostanze come una specie di “colpo di fulmine, un “barlume di assoluto”, come il ritrovamento di qualcosa che si era sempre cercato e la sensazione di trovarsi “finalmente a casa”. Tutti noi conosciamo quel “sentirsi potenziati”, il senso di sconfinamento e libertà tipico dello stato di ebbrezza, che risulta molto ridimensionato e “impoverito” quando si è sobri. A volte il primo contatto con l’alcol o con un altro “oggetto di dipendenza” viene vissuto come un momento di espansione infinita, una vera e propria esperienza “pseudomistica”. Dopo questo primo incontro con ciò che diventerà l’oggetto della propria dipendenza, dopo questo assaggio di “Assoluto”, ha inizio l’avventura, la ricerca di espansione e libertà di quanti con questi mezzi inadeguati iniziano il loro percorso verso l’ignoto. Man mano che si procede nel coinvolgimento con la sostanza o con l’altro “oggetto” fino alla dipendenza, il soggetto affronta dentro di sé ogni sorta di avversità e sfide che lo portano fino all’estremo delle sue forze finché non è costretto a deporre le armi e affrontare l’ultima prova: la resa. È necessario arrivare alla “bancarotta spirituale”, toccare “il fondo del pozzo” per capire che quella sostanza o quel comportamento non costituisce il vero oggetto della propria ricerca. Questa consapevolezza, tuttavia, richiede un gesto estremo, un grado di solitudine e di abbandono che può essere terrificante. Solo allora si può finalmente aprire una porta e diviene possibile compiere una “radiosa metamorfosi”. Questo doloroso momento, che può essere graduale o improvviso, segna l’inizio della trasformazione: il passaggio dall’esperienza limitata dell’io o “piccolo sé” ad una dimensione più ampia, transpersonale, al “Sé profondo”. Siamo abituati a identificarci con il nostro corpo che è limitato ed esiste all’interno di una realtà che percepiamo come limitata. Quando ci “arrendiamo” abbandoniamo tutte le nostre difese e tutto ciò con cui ci siamo identificati fino a quel momento: i nostri ruoli, i nostri pensieri, persino la rassicurante sensazione di essere all’interno di un confine, la nostra pelle. Allontanarsi dell’ego2quindi per avventurarsi nell’ignoto significa fare un salto nel buio, l’io deve abdicare per quanto terribile sia questa sensazione: abbandonarsi all’ignoto è come morire e questo vissuto di morte è tanto più drammatico quanto più netta era la separazione tra l’io e il non io. Ciò che rimane è l’essenza di ciò che siamo, abitiamo nello stesso corpo, ma siamo “inesplicabilmente nuovi”.
Secondo il pensiero orientale non c’è fede senza la resa, senza che ci sia il dono integrale di se stessi. La parola buddhista “nirvana” significa “espirare” ed espirare è lasciare andare. “Espirare”, “arrendersi”, è nella tradizione orientale il fondamentale atteggiamento della fede. Il maestro tibetano Choggam Trungpa si esprime con queste parole: “Arrendersi significa demolire, disfare, aprire, rinunciare. Vuole dire spogliarsi dei propri abiti, della pelle, dei nervi, del cuore, del cervello, fino a quando siamo esposti all’universo. Non deve rimanere nulla”. Solo quando sappiamo di essere finalmente morti a noi stessi avviene il miracolo: ci troviamo faccia a faccia con l’infinito. Questa percezione molto più vasta di sé porta ad una totale revisione del nostro “essere nel mondo”, del rapporto con la vita, con noi stessi e con gli altri. Nel programma dei dodici passi utilizzato dagli Alcolisti Anonimi i primi tre “passi” o stadi della terapia riguardano la perdita del controllo effettuato dall’io e l’accettazione di aiuto da parte di un Potere Superiore. Il terzo passo è: “abbiamo deciso di rimettere la nostra volontà e la nostra vita nelle mani di Dio, cosi come noi lo intendiamo”.
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Oltre la soglia
Grof considera le varie forme di dipendenza da alcol, sostanze, cibo, relazioni etc., un particolare tipo di “emergenza spirituale”, nel suo doppio aspetto di “pericolo” e “opportunità”, una crisi psicologica dalla quale si può emergere completamente trasformati. La letteratura spirituale e mistica di tutto il mondo è ricca di descrizioni di percorsi esistenziali simili in tutte le tappe alle esperienze così definite da Grof. La sua psicologia offre un ulteriore sviluppo al modello tradizionale della psiche in quanto afferma che quanto più si approfondisce la conoscenza dell’inconscio, una volta che ci siamo “sporcati” di tutto quanto è inaccettabile in noi, più possiamo attingere a piene mani alle nostre potenzialità finora inespresse, a quelle qualità tipicamente umane come l’amore, la gioia, l’armonia… la compassione.
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Nella cura delle diverse forme di dipendenza, se non viene preso in considerazione il bisogno di trascendenza, ogni approccio terapeutico risulta riduttivo e inadeguato. La guarigione tramite lo “spiritus contra spiritum” non può avvenire se non viene soddisfatta l’esigenza spirituale, il che non significa l’apprendimento o la pratica di un credo religioso. È necessario un incontro diretto con il “Mistero”, con la forza spirituale, un’immersione nelle profondità del nostro mondo interiore. I poeti e ricercatori spirituali usano spesso la metafora della fame e della sete per esprimere questa aspirazione dell’anima che, se soddisfatta, porta ad un maggiore equilibrio, benessere e fa emergere le nostre potenzialità. Molte pratiche spirituali anche molto lontane dalla nostra cultura spesso offrono una “via che nutre ed esercita il cuore”, una via d’accesso alla profondità dell’animo umano. Da qualche tempo c’è un risveglio di interesse verso queste antiche pratiche spirituali che sono state per secoli relegate all’oscurità come i diversi tipi di yoga, lo sciamanesimo, il sufismo, la meditazione taoista etc.
Il centauro
Dopo un lungo periodo di scissione dalla nostra fisicità così tipica nella nostra cultura, là dove il corpo viene molto spesso “demonizzato”, c’è una tendenza globale, collettiva di ritorno alla natura, alla terra. In ambito psicoterapeutico questa tendenza si manifesta nel bisogno di “incarnazione”, di ritorno alla corporeità. La terapia reichiana, la bioenergetica, la ”primal therapy”, la respirazione olotropica etc., sono esempi di questo ritorno alla fisicità in ambito psicoterapeutico. Secondo la prospettiva transpersonale dell’evoluzione umana il corpo, la persona, l’ombra e l’ego possono tutti essere assorbiti in un’integrazione di ordine superiore. Ken Wilber definisce questa fase “il centauro”: il sé integrato dove mente e corpo formano un’armoniosa unità. Il centauro, questo essere mitologico che rappresenta la perfetta integrazione mente-corpo corrisponde, nella psicologia occidentale ortodossa, allo stadio “più alto” cui si possa aspirare.
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La psicologia transpersonale, con l’apporto della fisica moderna e le nuove ricerche sulla coscienza, ha squarciato questo velo ed ha introdotto la spiritualità nella psicologia e, si potrebbe anche dire, la psicologia nella spiritualità. Attraverso l’approfondimento ed il supporto teorico dei suoi massimi esponenti, Grof, Maslow, Assagioli, Wilber, etc…, psicologia e spiritualità si sono maggiormente integrate negli ultimi decenni ed oggi sono molte le persone che possono descrivere l’esperienza di un incontro con il “mysterium tremendum” descritto da Rudolf Otto o con lo “spiritus” junghiano. E non solo lo “Spiritus contra Spiritum” consigliato da Jung per la dipendenza dall’alcol, ma lo spiritus contro il male di vivere, il vuoto, la perdita di senso e di valori, la sete di potere e la disperazione, un antidoto risanatore in questo particolare momento della nostra avventura umana.
Il ritorno
Nei percorsi iniziatici delle varie culture, descritti, tra gli altri, da Campbell e Eliade, così come nel viaggio dell’eroe che si avventura in territori insidiosi e ignoti c’è sempre un momento cruciale: il ritorno da quella dimensione “altra” alla vita di tutti i giorni, alla vita profana e ordinaria. Ma la vera scoperta, il tesoro ritrovato, avviene quando l’eroe si accorge che “in verità i due regni sono uno”. Il mondo degli dèi era soltanto una dimensione nascosta del mondo in cui viviamo. Una volta affrontato il nemico dentro di sé, l’ignoto, per l’eroe si apre una nuova modalità esistenziale che C. Grof definisce “l’esperienza divina di vivere da essere umani” e acquisisce il diritto di cittadinanza nel mondo interiore. Il tesoro dell’eroe è questa scoperta e questo diritto: vivere nel regno di Dio qui e adesso. Spesso le nostre sovrastrutture e corazze c’imprigionano in una falsa identità e non ci permettono di percepire che “l’al di là” o l’infinito possono essere contenuti in questo mondo e in ogni attimo dell’esistenza.