Ambrosia, il nettare d’amore

Ambrosia, il nettare d’amore

Voi servirete unicamente l’Eterno vostro D’; e Lui benedirà il vostro cibo e la vostra bevanda, e allontanerà da voi qualunque flagello (Es 23,25).

Qualsiasi offerta di una foglia, fiore, frutto o acqua fatta a me con devozione da un’anima pura Io l’accetto con amore (Krishna).

Anche gli dei mangiano
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Dal momento in cui un genitore offre per la prima volta qualcosa di dolce ad un bambino insieme ad un gesto di affetto, l’atto di mangiare viene impregnato di affettività ed il cibo si carica di significati che vanno molto al di là del nutrimento necessario alla nostra sopravvivenza, diventa ambrosia: il “nettare d’Amore”, veicolo dell’anima.

Ricordo che uno degli aspetti più rilevanti ed essenziali dei riti del candomblé, religione afro-brasiliana, era proprio l’offerta sull’altare del cibo prediletto dell’Orixà. In questo contesto religioso ogni divinità ha il Suo “menu” prediletto, cucinato dai fedeli con cura solenne, secondo il Suo appetito e ogni gesto viene vissuto intensamente nel suo profondo significato rituale/simbolico.

Nella nostra società dell’opulenza, oltre che da innumerevoli altri fattori, il cibo è ancora influenzato più o meno direttamente dalla dimensione celata dell’esistenza, così come dalla religione/spiritualità. “Noi siamo ciò che mangiamo”, afferma l’antica tradizione cinese, nella quale l’essere umano viene considerato nella sua totalità. Secondo l’antica medicina cinese il sapore e il colore degli alimenti sono anch’essi una forma di energia che in un certo senso ci trasforma e possiedono a loro volta una funzione di nutrimento che non è solo corporeo, ma animico e spirituale.

2Proviamo a osservare con attenzione una cerimonia religiosa, l’Eucarestia per esempio: l’evento originario si svolge intorno alla tavola, nella quale la figura centrale, il Cristo, condivide con i suoi apostoli erbe amare, pane azzimo e charoset[1]. Questo evento, che rappresenta il momento clou della salvezza nel cristianesimo, viene ritualizzato e rivissuto infinite volte fino ai nostri giorni durante la Santa Messa. Nel Medioevo, a tavola, i cristiani bevevano e mangiavano in modo rituale: cinque sorsi, ognuno per una ferita di Gesù, ed ogni boccone veniva diviso in quattro parti di cui tre per la Santissima Trinità e uno per la Vergine Maria, ecc. Secondo alcuni studi antropologici i rituali e le cerimonie delle principali religioni derivano ancora oggi da comportamenti osservati a tavola.

È comune a tutte le religioni considerare il cibo un dono del Dio o degli Dei e ne consegue che l’atto di mangiare non è mai un gesto qualsiasi, ma viene arricchito di numen e diviene atto solenne, un “sacra-mento”: atto sacro di ringraziamento e unione con l’Essere divino che ha donato all’uomo il cibo per nutrirlo, curarlo ed assicurarne la sopravvivenza. Un atto che è allo stesso tempo una celebrazione degli eventi fondamentali della vita – il sorgere e tramontare del sole, le varie fasi lunari, la semina e il raccolto, il mutare del tempo e delle stagioni – e deve rispondere alle esigenze spirituali di ogni religione, il cui principio di base è sempre improntato alla moderazione e alla gratitudine.

Le grandi religioni (Induismo, Buddhismo, Jainismo, in Oriente; Cristianesimo, Ebraismo e Islam, in Occidente ecc.) dedicano molta attenzione al cibo ed i divieti alimentari, così come le regole per consumare certi prodotti, uccidere (o non uccidere) gli animali nascono da una prospettiva di purificazione, redenzione e di integrazione dei due aspetti contrastanti della natura umana: lo spirito e la carne.

 

 “Non cucinerai il capretto nel latte di sua madre”

Nella letteratura sapienziale delle più svariate tradizioni viene messo in risalto il forte legame tra alimentazione e trascendenza, tra salute e spiritualità. “Benedirò il tuo pane e la tua acqua, rimuoverò da te ogni malattia”, dice Dio a Mosè nel libro dell’Esodo. Nella Cabalà[2], il nutrimento e l’atto stesso di mangiare è qualcosa degna di molta attenzione e assume un ruolo fondamentale all’interno della ritualistica religiosa. La tradizione cabalistica è ricca di insegnamenti che invitano il fedele a tenere in equilibrio le dimensioni fisica e spirituale dell’esistenza attraverso la cura del corpo, la dieta e la sessualità.
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Il rapporto tra cibo e religione, così come viene descritto nei libri sacri, è un tema complesso e a volte di difficile comprensione. Nel libro del Levitico (Antico Testamento) c’è una lunga analisi dei cibi vietati perché “blasfemi” e Re David, nei Salmi, offre importanti insegnamenti per una alimentazione sana e spiritualmente corretta.

La religione ebraica richiede che ogni pasto venga preceduto e seguito da benedizioni particolari, adeguate al tipo di cibo che si sta consumando e l’osservanza di una serie di complesse regole alimentari chiamate kashrut: la macellazione rituale, il dissanguamento dell’animale ucciso e la proibizione del consumo della carne di diversi animali. Una norma in particolare proibiva di mischiare carne e latte ed era ritenuta così importante da far parte originariamente dei dieci comandamenti: il consumo della carne va tenuto strettamente separato da quello dei latticini, così come le pentole e gli utensili usati per cucinarli. Questa regola si basa sul seguente precetto della Torà: “Non cucinerai il capretto nel latte di sua madre”.

Nell’islamismo la parola Ḥalāl, parola araba che significa “lecito”, si riferisce in Occidente principalmente al cibo preparato conforme alla legge islamica, in contrasto a ciò che è “proibito” (harām). Anche in questo caso la carne, per poter essere consumata dai fedeli, deve provenire da un animale macellato secondo i precetti tradizionali descritti nella Sunna.

Nel buddhismo è raccomandata l’astinenza dalle carni ma il consumo viene tollerato nel caso in cui chi la mangia non ha partecipato all’uccisione dell’animale. L’astensione dalla carne, anche se non viene esplicitamente prescritta nel buddhismo, è considerata un valore finalizzato alla protezione della Vita. “Gli animali uccidono solo quando hanno fame, e questo è un atteggiamento assai diverso da quello degli uomini, che sopprimono milioni di animali solo in nome del profitto”, afferma il XIV Dalai Lama.

I giainisti[3] a loro volta condannano drasticamente l’uccisione di qualsiasi animale e seguono una dieta rigorosamente vegetariana. Alcune sette jainiste consigliano l’utilizzo di scope per “aprirsi il cammino” ed evitare la funesta possibilità di uccidere un solo minuscolo insetto.
I sacerdoti giainisti quando camminano nelle campagne sono preceduti da accompagnatori che scacciano via formiche, ragni ecc. per evitare così che questi vengano calpestati o uccisi. Bocca e naso vengono coperti con mascherine per non inspirare, quindi uccidere, mosche e zanzare.

Nella religione cristiana, a differenza di quella ebraica e islamica, induista o buddhista non esistono tabù alimentari se non l’invito ad evitare gli eccessi e i cosiddetti “peccati di gola”. L’unico vero divieto è quello di consumare carne durante il venerdì santo. In alcune circostanze particolari, come il mercoledì delle ceneri ed il venerdì santo, viene rispettata “la regola del digiuno”. L’insegnamento di Gesù Cristo, a questo proposito, si discosta dalla tradizione delle altre religioni: “Non è ciò che entra nella bocca che contamina l’uomo; ma è quel che esce dalla bocca che contamina l’uomo […] Non capite che tutto ciò che entra nella bocca se ne va nel ventre, e viene espulso nella fogna? Ma le cose che escono dalla bocca procedono dal cuore; sono esse che contaminano l’uomo”. (Mt 15,11; Mt 15,17-20).

 Anche in assenza di tabù alimentari, la passione per il cibo (gola) per i cristiani è fino ad oggi considerata uno dei sette vizi capitali: un’occasione di peccaminoso abbandono ai piaceri dei sensi. Per i monaci, per esempio, la gola era un vero e proprio ostacolo alla redenzione ed il digiuno la regola per purificarsi e raggiungere la salvezza.
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Negli ultimi anni le immigrazioni sempre più massicce dovute a conflitti religiosi e sociopolitici, guerre o calamità climatiche hanno portato in superficie una questione spinosa con la quale la nostra moderna società è chiamata a confrontarsi: quella di preservare, o meno, le tradizioni alimentari di ogni religione, senza generare ulteriori conflitti. Nell’attuale contesto multiculturale/multireligioso le differenti convinzioni rispetto al cibo – come per esempio il trattamento degli animali da macello e le pressanti richieste di adeguamento della nostra produzione alimentare ai precetti delle diverse confessioni religiose – ha attribuito alla macellazione rituale un peso e un significato sconosciuti fino a poco tempo fa[4].

 

Carnivori contro vegetariani: il “paradosso carne”

Siamo costantemente sottoposti ad un bombardamento di informazioni su ciò che fa bene o fa male alla salute, sugli alimenti “buoni” e “cattivi”, sui rischi che corriamo scegliendo o meno certi prodotti. Non c’è quindi da meravigliarsi che il cibo possa fare anche paura e che il nostro rapporto con l’alimentazione si sia fatto sempre più complesso e problematico. Recentemente è stato segnalato dagli psicologi e specialisti del settore un nuovo disturbo definito ortoressia nervosa (ON)[5] per descrivere l’ossessione patologica per i cibi “puri”, con conseguenti limitazioni, anche sostanziali, della dieta. Il film Hungry Hearts del regista italiano Saverio Costanzo affronta questo tema controverso nel suo aspetto delicato della dieta infantile.

Il cibo cattura le nostre proiezioni, si carica di affettività e di ambivalenze, di paure e desideri, di giudizi spietati. Così anche l’appetito, come la nostra anima, può essere “purificato” dalla malvagità e dalla sofisticazione del mondo moderno, dal Peccato e anche dalla Morte. Pullulano diete alternative che vanno dal vegetarismo, al veganismo, al crudismo, alla dieta paleolitica (che tenta di imitare l’alimentazione dei nostri antenati), al fruttarismo (una dieta radicale in cui, in alcuni casi, pur di non arrecare danni alla natura, la frutta viene consumata solo se caduta naturalmente dell’albero) e ad altre numerose diete restrittive più o meno “fondamentaliste”. Così vissuto, come elemento che sentenzia colpe e virtù, dispensa lodi e punizioni, il cibo richiama emozioni profonde, definisce verdetti, valori, aspirazioni e si fa veicolo di messaggi paradossali: il desiderio di “ascesi”, di spiritualità, di pulizia, di autenticità, di rifiuto di questo mondo sporco, inquinato, ecc.
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La recente dichiarazione dell’Oms sulla pericolosità della carne ha suscitato svariate reazioni e si è estremizzata sempre di più, al punto che nel web si vedono scritte di ogni genere più o meno aggressive pro o contro la carne. Questa contrapposizione tra onnivori da una parte e vegetariani/vegani dall’altra, negli ultimi anni, ha ampiamente superato la sana dialettica per giungere verso una vera e propria battaglia ideologica, trasversale, senza frontiere né esclusione di colpi. In particolare colpisce l’immagine di una fettina di bacon che fa il “nodo”, come il nastro simbolo della lotta contro il femminicidio, con sotto la scritta: “io sto con la pancetta” così come altre immagini più o meno spietate, ma di segno diverso: teste mozzate e animali squartati e appesi nei mattatoi. Tutta questa polemica ripropone, con un linguaggio nuovo, l’antichissimo antagonismo – puro/impuro, peccato/virtù, proprio come se qualcosa che la nostra civiltà sembrava aver gettato definitivamente fuori dalla porta rientrasse puntualmente dalla finestra.

Dalla prospettiva carnivora il rifiuto di mangiare carne assume spesso connotati “patologici”: è conseguenza della paura (quale paura?) e soprattutto dalla rimozione, nel vegetariano, della propria aggressività. Dall’altro fronte, i vegetariani/vegani – che spesso usano l’espressione “mangiatori di cadaveri” riferendosi ai carnivori, espressione che evoca pensieri di morte e di uccisione – considerano il cibarsi di carne come qualcosa di paradossale e problematico, una dissonanza cognitiva nata dalla profonda scissione: è condiviso da tutti che uccidere gli animali sia qualcosa di riprovevole ed esistono molte leggi per “la protezione e tutela degli animali”, ma dinanzi al piatto, la deliziosa bistecca viene immediatamente scissa dall’animale morto ed il carnivoro la può mangiare in tutta tranquillità; ma cosa accade a livello inconscio? Oggi si parla di una vera e propria contraddizione intrinseca dei carnivori, definita il “paradosso carne”[6]: come mai l’uomo che prova amore verso gli animali riesce a mangiare la carne che prevede l’uccisione di questi stessi animali?

Seguendo questo pensiero, la rimozione della “colpa” non è sempre efficace e allora chi mangia carne proietta dunque nell’altro, colui che la carne non la mangia, l’ombra del paradosso e ha spesso l’impressione d’essere da questo moralmente criticato. Il vegetariano genera quindi nei carnivori un senso di colpa, che viene a sua volta deviato, considerando “fanatici o patologici” quelli che lo hanno suscitato.

Per Lev Tolstoj il vegetarismo non è soltanto la lotta contro l’aggressività umana, ma è anche il primo gradino di un progresso spirituale. Il vegetarismo etico o “la dieta senza uccisione” è il primo passo, secondo Lev Tolstoj – la cui conversione al vegetarismo avvenne all’età di 47 anni, per motivi etici –  verso un più alto livello di coscienza, di nonviolenza, di fratellanza. Il primo gradino infatti è il titolo di un suo saggio sul mangiar carne e sui macelli (Tolstoj, 1891), nel quale il grande scrittore russo descrive il suo vissuto emotivo e tutta la sua indignazione nell’assistere all’uccisione di un maiale. Anche il Mahatma Gandhi esprime lo stesso pensiero: “Sento che il nostro progresso spirituale ci porterà a smettere, prima o poi, di uccidere altre creature per soddisfare i nostri bisogni materiali” (Mahatma Gandhi 1869-1948).

All’occhio attento dello psicologo non sfuggono però alcuni eccessi tipici della scelta alimentare vegetariana/vegana, eccessi che vanno da un marcato timore di contaminazioni, al dogmatismo, al radicalismo e al proselitismo, proprio come accade con le religioni. La stessa scelta può anche essere vista nell’ottica di un’identificazione inconscia con la debolezza e vulnerabilità degli animali, “vittime indifese di questo mondo spietato” o del rifiuto della società “carnivora” ed insensibile alla vita: una scelta difensiva o una ribellione verso un mondo sempre più “contaminato”. Se è vero che il vegetariano ha un conto in sospeso con la fragilità e con l’aggressività, possiamo ipotizzare che l’integrazione tra la sua coscienza etica e l’inconscio potrebbe sollevarlo dalla rigida regola alimentare e renderlo libero di fare una “scelta” alimentare più consapevole e forse meno rigida.

Per chi convive con gli animali e li ama, il rifiuto di mangiarli acquisisce un diverso significato ed è considerato molto più “sano” e adeguato dal punto di vista psicologico dei paradossi che caratterizzano i carnivori.

La signora Teresa, una donna di mezza età, di modesta condizione sociale, mi racconta che un giorno, di ritorno a casa dopo una giornata di lavoro, ha sentito nell’aria un particolare odore che proveniva da una pirofila fumante: era il gatto di casa cucinato da suo marito, che lo stava mangiando tranquillamente, dinanzi al suo sguardo attonito. Non sono mai riuscita a trovare una definizione psicologica per un comportamento così dis-umano.

Il discorso si fa più complesso se parliamo dei vegani, la cui scelta alimentare molto più restrittiva rispetto a quella vegetariana si fonda su una filosofia di vita biocentrica, che ricerca l’armonia con la Natura ed aborrisce l’uccisione e lo sfruttamento degli animali in qualsiasi forma: nutrimento, mungitura o abbigliamento. Uno stile di vita radicale, dalle drastiche conseguenze dal punto di vista economico-sociale perché in contrasto con un sistema produttivo al quale l’alimentazione di origine animale è indispensabile. Secondo una visione psicologica di tipo normalizzante, il vegetarianismo viene considerato “sospetto” e il veganismo indubbiamente “patologico”. In questo caso viene utilizzato un vocabolario stigmatizzante nei confronti di chi si rifiuta di mangiare animali, un vocabolario che potrebbe essere definito “vegefobico”. L’astensione dagli alimenti di origine animale viene considerata secondo questa visione come un vero e proprio “sintomo di copertura”: un modo per mascherare un disordine alimentare più profondo come l’anoressia, e così via. In questa ottica i vegani potrebbero essere annoverati tra coloro che sono affetti da patologie alimentari più o meno gravi.

I sogni di Romeo[7], 49 anni, hanno in qualche modo annunciato la sua imminente “scelta” di una alimentazione vegana: una fabbrica di dolci a conduzione familiare, divisa in due parti: la produzione (con gli operai che si lamentano) ed il settore di vendite (dove gli acquirenti sono persone grottesche che gli ricordano i film di Fellini). C’è un grande tubo dove passa il dolciume che poi esce nella parte commerciale per essere venduto e consumato. Romeo associa questo grande tubo al pene ed ai rapporti sessuali (l’uomo ha difficoltà a provare un orgasmo sessuale, così come il Piacere in generale).

Si trova nella spiaggia al buio, il cielo è nero, il mare nero agitato. C’è un gruppo di ragazze bionde bellissime in un luogo recintato. Su di loro c’è un raggio di sole. Poi improvvisamente si alzano tante lastre isolanti davanti al mare impedendone l’acceso.

Un maggiore approfondimento esulerebbe dagli spazi e dagli scopi di questo testo, ma vorrei sottolineare due aspetti che vengono spesso trascurati in questi dibattiti: prima di tutto la capacità della persona che fa questo tipo di scelta alimentare di sentire e di godere, ma soprattutto di “meritare il Piacere”, in questo caso il Piacere del cibo. Secondo, ma non meno importante, è il rapporto della persona con il principio Femminile che rappresenta il Nutrimento per eccellenza, incarnato nella madre personale e nella Grande Madre Natura.

L’uomo predatore versus l’uomo ecologico

Un’altra corrente di pensiero, più filosofica che psicologica, al contrario dei vegefobici, vede la questione da un punto di vista più ampio ed evoluzionistico: considera i vegani più consapevoli e più adatti alla conservazione della specie e quindi gli esseri umani più all’avanguardia in tema di alimentazione. Nel vegano, secondo questa visione il concetto di “sopravvivenza” è stato ampliato e rielaborato; gli istinti primordiali si sono evoluti ed innalzati verso una sfera più armoniosa e innocua per l’ambiente. Dal punto di vista vegano, il termine “sopravvivenza” va molto al di là del senso di continuità della propria vita e della stessa vita della specie umana e abbraccia l’intero ecosistema Terra. Il vegetariano in questa ottica sarebbe allora l’anello di congiunzione tra l’uomo predatore/cacciatore e l’uomo ecologico, rappresentato attualmente dal vegano.
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Il punto di partenza della filosofia vegetariana/vegana e della psicologia di chi abbraccia questa alimentazione ha a che fare con l’abbattimento di due pregiudizi in particolare: lo specismo (la credenza nella superiorità di una specie – la nostra – sulle altre) e l’omocentrismo (la convinzione di essere al centro dell’universo e la nostra presunta superiorità rispetto alle altre specie, di conseguenza il potere di fare di loro ciò che vogliamo). Vegetariani e vegani non darebbero più per scontato questi principi e manifesterebbero, attraverso le loro scelte alimentari, tutto il loro rispetto per l’ordine naturale degli esseri e per la Natura.

Considerando i numerosi studi che negli ultimi anni hanno affrontato la questione della neurobiologia delle piante – che avrebbero coscienza di sé e sensibilità al dolore, che sarebbero in grado di comunicare e persino di apprendere – il discorso potrebbe allargarsi (pericolosamente) e qualcuno potrebbe arrivare persino a ritenere “colpevole” la stessa alimentazione vegetariana in quanto gli scienziati moderni sembrano concordi nell’affermare che il profumo di erba tagliata sarebbe l’equivalente chimico di un grido di dolore, il grido di dolore del vegetale!
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La fame di Vita

Nella tradizione cabalistica Dio “D-O”, o il Boré[8] non viene inteso nel suo solito significato religioso di un essere onnipotente da adorare e obbedire per essere ricompensati, ma è identificato con la Natura in senso ampio, considerata come una Unità. Secondo questa tradizione sapienziale l’evoluzione umana è l’evoluzione dei nostri desideri (o del nutrimento al quale aneliamo), desideri che si elevano da una dimensione di concretezza, come la sopravvivenza immediata, il cibo, la casa ecc. verso desideri e aspirazioni sempre più astratte, impalpabili come l’Armonia, l’Arte o la Giustizia. “Quale è la tua fame?” significa “Qual è la tua essenza?”. La fame siamo noi, abbiamo fame di ciò che riconosciamo come affine a noi stessi, di questo vogliamo essere nutriti. Anche per Abraham Maslow – esponente di spicco della psicologia umanistica, noto per aver ideato la cosiddetta “piramide di Maslow” – “quando parliamo dei ‘bisogni’ degli esseri umani, parliamo dell’essenza della loro vita”.

La fame/desiderio, in un senso più profondo, è l’anelito verso la Vita e il motore propulsivo di ogni nostra azione: ballare, scrivere, recitare… abbiamo fame di letteratura, di musica, di cinema… di verità, di poesia, di un altro essere umano. Per Jacques Lacan, ogni desiderio è sempre desiderio dell’altro ed ogni domanda è sempre una domanda d’amore. Visto da questa ottica tutti gli appetiti possono essere collegati e possono trasformarsi: possono evolvere dalla fame di divorare o possedere il mondo intero alla fame di essere Tutto ciò che esiste. Nella scuola del desiderio lo stato supremo è questa fame di Vita, Fame di ciò che trascende tutti i confini tra noi e gli altri, Fame d’Amore, di Unione e di Appartenenza.

 

 

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[1] Un impasto di frutta, agnello arrostito e vino.

[2] La tradizione esoterica della mistica ebraica diretta all’interpretazione simbolica della Bibbia nel suo significato più intimo e segreto.

[3] È un’antica filosofia/religione basata sulla nonviolenza e ispirata agli insegnamenti di Mahavira (559-527 a.C.).

[4] A.G. Chizzoniti e M. Tallacchini, Cibo e religione, Libellula Edizioni, Roma, 2012.

 

[5] Da orthos, corretto, e orexis, appetito.

[6] Da una ricerca all’Università di Pennsylvania e Stanford, pubblicata sul Social Psychological and Personality Science.

 

[7] Il nome è naturalmente di fantasia, l’età è quella reale.

[8] Il nome di Dio per un cabalista è troppo potente per essere pronunciato.

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