SEGRETI DI FAMIGLIA

Di Virginia Salles, Roma

 

“Il mio progetto è di farmi fotografo. Farò posare davanti al mio obiettivo i contemporanei, a uno a uno. Non risparmierò il bambino nel ventre della madre, né un pensiero, né un’atmosfera nascosta nelle parole di nessuna anima, ogni volta che mi troverò in presenza di uno spirito che meriti il ritratto»  
Henrik Ibsen

Casa di Bambola, dramma in tre atti  scritto da Henrik Ibsen fece scandalo quando fu presentato a Copenaghen nel 1879. In questa piéce Ibsen squarcia impietosamente il velo del perbenismo dell’epoca, svelando i turbamenti, le lacerazioni e tutte le contraddizioni che si nascondono dietro la rispettabile apparenza della famiglia borghese. Famiglia che, dall’altare irreprensibile di armonia e amore viene scaraventata giù, smitizzata e spodestata al punto da venir rappresentata come luogo instabile di ipocrisie e di angoscianti compromessi. I personaggi vengono descritti dall’autore nel loro più intimo sentire e la condizione femminile dell’epoca, all’interno della famiglia e nella società, viene sviscerata nei suoi aspetti più subdoli e contraddittori.

Tutto nasce da un segreto di Nora, la protagonista, segreto che una volta svelato al marito fa emergere tutta la sua (di lui) natura meschina ed egoista. Ma non solo. Per lei – che non è mai stata la “bambola” accomodata ed innocua che il marito credeva di possedere – erano proprio quelle leggi tacite e segrete che regolano il matrimonio e la società, le più difficili da comprendere ed accettare. Il segreto di Nora la separa dal marito, offrendole quello spazio individuale che le permette di ascoltarsi, di osservare e di guardare oltre la facciata di un rapporto che non la soddisfa. Per molto tempo compenetrata nel ruolo che le era stato attribuito, la donna si ribella e si riconosce nel diritto (e nel dovere) di conquistare l’identità che le era stata negata e la propria libertà. Nora prende coscienza che tra lei e il marito non c’è più possibilità d’intesa, lascia la famiglia e i figli e va via di casa.

A volte, quando ci confrontiamo con persone lontane dal nostro ambiente familiare, riusciamo meglio a percepire i nostri pregiudizi e le nostre idee precostituite su determinati argomenti. All’improvviso rimaniamo stupiti di aver fatto nostri pensieri e atteggiamenti che fino a quel momento ci sembravano dei punti fermi assoluti, ma che in realtà non ci appartenevano, ma erano i punti di vista della nostra famiglia, proprio come se fossimo stati immersi in una sorta di “acquario”: la coscienza familiare.
A volte ci rendiamo anche conto che è proprio la dedizione o la “lealtà” ad un membro della nostra famiglia, i cosiddetti “contratti emotivi”, ciò che viene definito “lealtà familiare invisibile”, ad impedire la nostra realizzazione: quell’insieme di aspettative reciproche che si stabiliscono tacitamente tra i membri della famiglia, i ruoli ed i condizionamenti che, come nel caso di Nora, ci imprigionano. La letteratura ed il cinema in particolare, portano in scena questi compromessi e ostacoli – veri e propri inferni quotidiani che molte persone vivono dentro le mura domestiche – e la lotta per la propria liberazione.
Questa scandalosa opera teatrale (per la sua epoca) è una vera celebrazione della libertà e dell’autodeterminazione dell’individuo, della donna in particolare, e ci offre un squarcio di verità oltre la finzione. Il segreto di Nora una volta svelato, scompiglia tutto l’apparente equilibrio di una famiglia infelice e punta il dito verso la natura meschina di un marito non più degno d’amore. Segreto che funge in un certo senso da nascondiglio, un rifugio tutto personale, dal quale spiare e vedere per quello che è, se stessi e gli altri. Un nascondiglio indispensabile per poter guardare più in profondità il mondo che la circonda.

Nel film di Joachim Trier, Segreti di famiglia (2015) una grande mostra a New York celebra una fotografa di guerra morta (suicida) tre anni prima, in un incidente d’auto. Il figlio maggiore ritorna nella casa di famiglia per organizzare l’archivio materno e lì ritrova il fratello minore e il padre. Ognuno di loro ha un ricordo diverso della donna. Il vedovo tenta di nascondere al figlio minore le ragioni della morte della moglie, ragioni che una volta venute alla luce, non sono lontane dalla realtà che il ragazzo aveva percepito e “respirato” dentro la famiglia. Ognuno di loro dovrà riscrivere il proprio copione e riconciliarsi in un certo senso con gli eventi e i segreti che la loro madre/moglie ha portato con sé fino alla fine della sua vita. Una volta svelata, la verità libererà tutti i membri della famiglia dalla “colpa” e dalla finzione.
Furono proprio gli spazi vuoti e i silenzi, nel film di Trier – molto di più che le azioni o il contenuto delle conversazioni – ad essere “più chiassosi delle bombe” e a fare riemergere fantasmi e segreti. Fu tutto il “non detto”, tenuto nascosto sotto il grande tappetto degli imbarazzi e dell’omertà familiare, ma comunque sperimentato e vissuto ad un livello più profondo, a costringere padre e figli a fare i conti con il proprio passato/presente, a raccogliere i cocci e ripristinare la connessione interrotta con se stessi e tra di loro.
Maria ha 25 anni ed è terrorizzata dalle banane. Quando ne vede una, urla e scappa. Ad un’analisi approfondita emerge che da adolescente è stata abusata da un parente che continua a frequentare la famiglia ed è stimato e considerato da tutti “una brava persona”. Maria non ha mai raccontato esplicitamente ai genitori l’episodio dell’abuso, ma ha cercato in qualche modo di farglielo capire. I suoi genitori non hanno mai raccolto il messaggio che è rimasto un suo segreto. In terapia il suo problema con le banane fa emergere un po’ alla volta l’abuso subìto ed un’infinità di cose mai dette.

 

Intorno alla culla

Ascoltate tutti quanti! La principessa, in vero, crescerà in grazia e bellezza, amata da tutti coloro che la circondano. Ma… prima che il sole tramonti sul suo sedicesimo compleanno, ella si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio e morrà!”.

Proprio come le fate, buone o cattive, intorno alla culla della bella addormentata nel bosco, i membri della famiglia preannunciano destini, benedizioni e catastrofi. A volte tacciono e con i loro silenzi delimitano gli spazi nei quali non è possibile penetrare neanche con l’immaginazione. Ed è attraverso questo gioco di ombre e di luci, di silenzi e di rumori assordanti, che vengono assegnati i ruoli, orientate le scelte, intralciati i destini.
Il film Come l’acqua per la cioccolata, regia di Alfonso Arau (Tratto dal romanzo di Laura Esquival, 1989), si svolge in Messico, nel primo novecento. Tita, l’ultima di tre figlie, è destinata a non maritarsi mai perché deve accudire la madre fino alla morte. Pedro, il suo amato, si sposa la sorella maggiore pur di starle vicino.
Accade in alcune famiglie che, quando i genitori, esausti dalle fatiche di una vita difficile, diventano anziani o si ammalano, vengono assistiti da una delle figlie. Questa, come Tita, la protagonista del film di Arau, sarà destinata a non andare mai via di casa per poter svolgere il dovuto ruolo filiale.

Come spugne assorbiamo credenze ed aspettative e le relazioni familiari, fondamento della vita psichica, rimangono sempre il crogiolo nel quale si intrecciano le maglie di una più ampia rete di relazioni che ci modellano e ci guidano in una determinata direzione, dalla nascita o ancora prima e che noi stessi contribuiremo a plasmare. Mi vengono in mente quelle persone che non riescono, pur desiderandolo, a cambiare città per paura di ferire i propri familiari o che non possono vivere liberamente un amore per timore dei ricatti e delle ritorsioni in famiglia. I figli che vengono indirizzati ad un determinato tipo di hobby o di studi. La ragazza che deve “trovare marito” e fare figli per sentirsi “a posto”. Etichette del tipo “la brava ragazza”, “la pecora nera”, “il disastrato”, “l’impacciato”, “quello che ha la testa nelle nuvole”, “il fallito”, “la bella” o “la bruttina” etc. possono segnare, a volte in modo indelebile, le nostre vite.
“Speriamo che non sia cattiva come nonna Agata”, “Drogata come nostra cugina”, “Puttana come la zia”, “Infedele come la nonna Ernestina”, “Speriamo che non sia un alcolizzato come il nonno Arturo”, “Omosessuale come lo zio Pietro”, “Fannullone e donnaiolo come il nonno paterno”. (A. Jodorowsky).

 

Sotto il tappeto

Estate in Danimarca: una grande famiglia si ritrova in una lussuosa residenza di campagna per festeggiare il 60° compleanno del patriarca. Una festa destinata ad essere memorabile.

Durante il pranzo, il primogenito si alza e propone un brindisi, ma invece del discorso d’elogio che tutti s’aspettavano, rivela a tutti i presenti un segreto indicibile: il festeggiato, proprio lui, il patriarca, quando erano bambini, per anni, ha abusato di lui e della sorella, morta suicida l’anno prima. Accusa poi la madre di aver visto gli abusi e di aver taciuto. Intorno alla tavola scende il gelo, lo sconcerto, l’incredulità che si tramutano in confusione ed in un reciproco scambio di accuse e difese tra i componenti della famiglia. Per tutta la notte disagio e agitazione. Al mattino, durante la colazione il patriarca dichiara, dinanzi agli occhi attoniti di tutti, che quella sarà l’ultima volta che lo vedranno. Il figlio, finalmente liberato dall’enorme peso, ritrovata la pace interiore, va via.
Festen, festa in famiglia, un film di Thomas Vinterberg (1998) considerato uno dei più feroci film antiborghesi, ha i suoi antecedenti nel cinema dell’ultimo Bergman e nel teatro di Ibsen e Strindberg. Nel suo spietato furore espressivo Vinterberg, attraverso immagini forti e destabilizzanti, denuncia l’ipocrisia e gli orrori di una famiglia disfunzionale che vive intorno ad una falsa immagine di sé. La figura paterna, pilastro della famiglia, viene impietosamente demolita e la festa si trasforma in un angosciante e allo stesso tempo liberatorio rito parricida.
Rivelare a voce alta ciò che è stato nascosto sotto il tappeto della nostra casa/memoria, significa spezzare quel falso e fragile equilibrio che sostiene l’intera famiglia. E’ qualcosa di sconvolgente per tutti i componenti, ma che può drasticamente spezzare le catene che impediscono la loro libera espressione, e avviarli sulla strada di una vita autentica.
Anna, 52 anni, è una scrittrice di romanzi. Nata negli anni 60 in una famiglia borghese, sostiene di portare sulle proprie spalle tutto “il non detto” degli anni giovanili di rivolta e di ipocrisia. Ora sta scrivendo un libro sulla misteriosa storia di suo nonno ucciso “per motivi politici” non molto chiari. Questo è un argomento tabù nella sua famiglia. Per cercare la verità Anna ha fatto ritorno nel paese di origine della sua famiglia e ha scoperto il vero motivo dell’omicidio del nonno, motivo mai rivelato in famiglia.

Il segreto indicibile è sempre legato a vergogne, disonori, peccati, qualcosa di molto riprovevole per la morale vigente, commesso da un genitore o da un antenato: dall’infedeltà coniugale all’orientamento sessuale, all’aver trasgredito in qualche modo la legge scritta o non scritta, collettiva o familiare. Liberata dal peso di un segreto mai rivelato, Anna, attraverso la scrittura di ciò che non è stato mai rivelato in famiglia, ha intrapreso un travagliato percorso esistenziale. Scrittura che diviene la sua salvezza quotidiana ed il suo mezzo di riparazione. In seguito alcuni sogni da Anna:
Un’anticamera che dà su un pianerottolo ma la porta è senza serratura. Sento delle grida venire dal palazzo, una donna viene maltrattata da un uomo, esco sul pianerottolo urlo qualcosa, arriva un uomo in canottiera che mi aggredisce, non riesco a rientrare perché appunto la porta è senza serratura.
Mangio abiti usati chissà da chi e anche sporchi e mi viene il disgusto e penso anche che mangiando quei vestiti mi può venire una malattia. Abiti che sono lì per terra abbandonati… abiti forse appartenuti a poveracci.
Sogno di essere nella nostra casa di famiglia nell’androne di un palazzo antico un po’ decaduto. Mi accorgo che il soffitto è pieno d’acqua come se il piano di sopra si stesse allagando in fretta. Cerchiamo da dove possa provenire la perdita d’acqua, ma C. dice che bisogna cercare da un’altra parte…
Sono proprio quelle sensazioni difficili da definire, ombre di pensieri che emergono dai silenzi – che in realtà non sono altro che esperienze sopite e dimenticate – che formano il nostro tessuto emotivo e la nostra identità: ricordi di momenti che ci fanno tremare e dei quali non riusciamo a trovare parole in grado di esprimere la grandezza ed il terrore. È come se un fantasma uscisse dalla tomba mal chiusa, dalla quale proviene un cattivo odore, avvertito da tutti i membri della famiglia, i quali fanno finta di non sentirlo.
Mantenere un segreto ci fa sentire gravati da un peso e le nostre mete ci sembrano sempre più lontane. Custodisce un segreto anche chi non ama più, chi non prova più affetto verso le persona con cui vive, ma che sceglie di tacere e di andare avanti per abitudine, per paura del cambiamento o della solitudine. I membri della famiglia conoscono, proprio come se lo carpissero dall’aria che respirano, ciò che non si sono mai detti esplicitamente. Segreto, appunto, che ogni membro sente di essere il solo a custodire.
Olga, un’anziana signora, alla quale non rimane molto tempo da vivere, decide di scrivere una lunga lettera alla nipote, Marta, nella quale rievoca le fasi della sua vita, apre il suo cuore e le racconta ogni suo segreto, un ultimo, generoso gesto prima di andare via per sempre.
Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro (1994), riproposto da Cristina Comencini in versione cinematografica è un romanzo sui “segreti di famiglia”.
L’anziana donna identifica la fine della sua infanzia con il momento nel quale le dissero che il suo amato cane era andato via, perché stanco dei suoi dispetti, mentre in realtà era morto. 
Durante il matrimonio, per curarsi da una malattia, Olga si trasferisce qualche giorno alle terme dove incontra Ernesto, un giovane affascinante, con il quale vive la sua unica vera storia d’amore e concepisce Ilaria, la madre di Marta.
Il primo segreto di Olga, mai confessato, è che suo marito, Augusto, non è il vero padre di Ilaria, il quale pur avendo intuito il tradimento, non ne aveva mai pronunciare parola. In punto di morte, Augusto, guardando le mani di Ilaria, dice: «così non ce l’ha nessun altro in famiglia».
Quando Ilaria ha quattro anni, Ernesto muore in un incidente stradale. Olga cade allora in una profonda depressione e inizia così un progressivo distacco dalla figlia che si trasformerà, in età adulta, in aperto conflitto. In un momento di rabbia la donna rivela a Ilaria che Augusto non è il suo vero padre. Ilaria, sconvolta, scappa con Marta, la figlia ancora piccola, sale in macchina e, per l’agitazione, ha un incidente stradale, nel quale muore. Come suo padre. Olga, nella lettera alla nipote, confessa di sentirsi in parte colpevole della morte della figlia.

Ciò che chiamiamo “lealtà familiare invisibile” sono proprio questi legami di natura psicologica verso familiari, anche appartenenti a generazioni precedenti: cose mai dette, ferite, “esperienze non concluse”. I discendenti, tenderanno a riproporre inconsciamente l’antico “copione” di questi familiari/antenati, anche quando non hanno la minima conoscenza del trauma originale, molto spesso un “segreto di famiglia”. Con un occhio attento ai messaggi, ai drammi, ai “compiti non finiti” ereditati dai nostri antenati possiamo riappropriarci delle nostre radici, mettere ordine nel “sottoscala” lasciato dai nostri avi e sciogliere i nodi che ci legano ancora ad un passato che ha fatto il suo tempo.

Di generazione in generazione


Jung ha ipotizzato che la vita non vissuta ed i problemi non risolti dei nostri antenati sono custoditi nell’inconscio collettivo. Così scriveva nell’ultimo periodo della sua vita: “Mentre stavo lavorando per scolpire le lastre di pietra, mi resi conto dei legami fatali che mi univano ai miei avi. Ho la netta impressione di essere sotto l’influenza di cose o problemi che furono lasciati incompiuti o senza riposta dai miei genitori, dai miei nonni e anche dai miei più remoti antenati. Spesso sembra che ci sia in una famiglia un karma impersonale che si trasmette dai genitori ai figli. Mi è sempre sembrato di dover rispondere a problemi che il destino aveva posto ai miei antenati e che non avevano ancora avuto risposta, o di dover portare a conclusione, o anche soltanto continuare, cose che le età precedenti avevano lasciato incompiuto”.
Questi lasciti continuano ad agire nelle nostre vite proprio come fantasmi usciti dalla tomba per “un regolamento di conti”, come nel caso di Ilaria – il personaggio del romanzo della Tamaro – che finisce per ripetere lo stesso copione della morte del padre.

Anne Ancelin Shutzenberger e Alejandro Jodorowsky sostengono, in sintonia con Jung, che i nostri genitori, i nonni, tutta la schiera degli antenati, ci lasciano in eredità i loro problemi non risolti, le loro aspirazioni non realizzate, i segreti mai rivelati che come “ordigni esplosivi” attendono solo il momento di esplodere. Segreti che finiscono per contaminare tutta l’atmosfera emotiva familiare e perpetuarsi di generazione in generazione fino a quando il loro significato non verrà chiarito ed elaborato.  Negli anni ’80 questi autori hanno utilizzato per la prima volta uno strumento di accompagnamento psicologico definito psicogenealogia.
Secondo Nicolas Abraham e Maria Torok esiste in ogni famiglia una specie di crogiolo inconscio nel quale vengono sepolti i “segreti inconfessabili” i quali generano “fantasmi transgenerazionali” che si “incarnano” nei discendenti: segreti di famiglia che nascono da eventi sconvolgenti sui quali scende il velo dell’oblio.
Enrico, professionista affermato, vive costantemente in stato di ansia: aprire la pec, ricevere una raccomandata o semplicemente sentire il suono del citofono, sono situazioni che gli fanno balzare il cuore dalla paura, a volte vero e proprio panico, proprio come se attendesse una punizione, senza consapevole motivazione, come Josef K, condannato a morte per una colpa inesistente, ne Il Processo di Kafka.
I temi del cimitero e delle tomba di famiglia sono ricorrenti nei suoi sogni:

Sono in un cimitero insieme ad una persona della quale non vedo il volto, solo una sagoma eterea appena accennata. Ci troviamo in un punto che domina tutto il cimitero; è l’imbrunire; chiamo la persona vicino a me dicendogli: ” Dai sbrigati che è tardi, si sta facendo buio e dobbiamo uscire!

Sono ancora al cimitero con i miei fratelli; siamo lì perché dobbiamo occuparci di alcune pratiche burocratiche relative alla tomba di famiglia dove sono sepolti i nostri genitori e altri parenti. E’ notte, ho paura… guardo fuori nel buio e vedo alcune persone intente a scavare. Un ragazzo ci accompagna dentro una stanza sporca e piena di insetti; vicino c’è un bagno putrido e maleodorante, con il piatto doccia pieno di scarafaggi; capisco che dovremo dormire lì.

Nei suoi appunti Enrico scrive: “negli ultimi giorni, penso costantemente alla decomposizione dei corpi dei miei parenti, sepolti nella nostra cappella e, in particolare, penso a mia madre. Immagino il suo corpo ormai mummificato e mangiato e il liquido che probabilmente è uscito dalla bara. Non provo ribrezzo o disgusto, ma provo pena per lei e per me. Il pensiero è divenuto ossessivo e mi lascia spesso, senza fiato, Penso che dovrei essere con lei/loro a consolarli e, dico a mia madre e mio padre. “tranquilli, sto arrivando”. E piango solo e disperato.”
Quando Enrico era bambino suo padre è sparito per alcuni mesi senza che lui sapesse perché. Ricorda l’improvviso trasloco in un’altra città, bisbigli sotto voce e sua madre che piange.
Sono nella casa della nostra famiglia, rivedo un vecchio portaoggetti di legno a forma di libro molto antico, che si trovava a casa dei miei genitori, ormai perduto. non riesco ad aprirlo… Mi sveglio  con gli occhi pieni di lacrime.
Frugando nei cassetti della vecchia casa di famiglia, Enrico trova una vecchia lettera di suo padre a sua madre e dal contenuto capisce che è una lettera scritta dal carcere.Abraham e Torok hanno teorizzato la presenza di un “fantasma psicogenealogico” a partire dall’analisi di alcuni pazienti che, come Enrico, erano schiacciati da sensi di colpa e vivevano con la convinzione di aver fatto un grave torto a qualcuno, di aver trasgredito la legge o compiuto un qualche tipo di azione malvagia, ma che in realtà non avevano fatto assolutamente niente.
Quando qualcosa non viene comunicata sul piano verbale (cosciente), si percepisce “nell’aria”, precipita ad una dimensione inconscia, non verbale. E’ così che il segreto, la “colpa” o la ferita esistenziale o fisica, di un antenato vengono agiti o persino somatizzati nel corpo del figlio, del nipote o del pronipote.
Sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 20, 5-6), leggiamo nella Bibbia.“Tirare fuori gli scheletri dall’armadio”, decodificare i traumi e rivelare i segreti racchiusi nell’anima e nella carne dei discendenti, favoriscono la consapevolezza dei “legami invisibili di lealtà” e dei destini lasciati in sospeso dalle generazioni precedenti e possono liberare la persona dalla ripetizione compulsiva di dinamiche familiari stagnanti. Ma non basta. Saper cogliere anche le sincronicità, comunicare con l’inconscio attraverso i sogni ed i rituali simbolici, aiutano a concludere ciò che è rimasto in sospeso nelle generazioni precedenti e possono aprire la via alla possibilità di una vita autentica.