Distanze

 

Allontanarsi per vedere meglio. La distanza che restituisce la verità

   

L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.

(Marcel Proust)

 

 

La relazione per un’Accademia

 

In uno dei racconti più originali di Franz Kafka intitolato Una relazione per un’accademia e pubblicato per la prima volta nel 1917, a tenere la relazione è nientemeno che una scimmia. Addestrata, in soli cinque anni raggiunge l’evoluzione umana, al punto da essere in grado di presentare un lavoro che consiste nella narrazione, in prima persona, delle sue vicende da ex-scimmia, ora uomo, al cospetto degli “Illustri signori dell’Accademia”.

Nata sulla Costa d’Avorio e catturata durante una spedizione di caccia mentre era con il suo branco, la scimmia viene ferita da due pallottole, una al volto e l’altra all’anca. A causa della cicatrice al volto viene chiamata “Pietro il Rosso”.

Imprigionata nella sua gabbia all’interno della imbarcazione, con le grate che le tagliano la carne, la scimmia si accorge ben presto di essere controllata dallo “sguardo dell’uomo”, ma è attraverso le stesse sbarre che anche lei guarda gli uomini, li giudica e li imita: “Non ragionavo, ma osservavo con tutta la calma. Vedevo uomini andare e venire: sempre gli stessi volti, identici movimenti; mi pareva spesso che fossero uno solo…” “in questi uomini, così in sé, non c’era nulla che mi attraesse molto…”[1]

 A forza di osservarli, Pietro il Rosso intravede “nel torbido sguardo umano”, la via di uscita che tanto cercava: diventare come loro, dato che “era così facile imitarli!”.

 “Una relazione per un’Accademia” è un breve racconto sulla natura umana che, come accade per tutte le grandi opere, ci offre diverse chiavi di lettura. La via di uscita che Kafka trova per la scimmia è affidata allo sguardo obiettivo e disincantato di chi si trova dall’altro lato della barricata. Immedesimatosi in un animale, Kafka osserva il genere umano da una certa distanza che ne favorisce la riflessione e l’insight e ne ritrae un’immagine spietata in cui siamo tutti accomunati, uomini e scimmie, dalla nostra irrefrenabile brutalità.

“Al tallone però, chiunque cammini su questa terra – spiega Pietro il Rosso agli illustri professori attenti ad ascoltarlo – ne avverte il solletico tanto il piccolo scimpanzè come il grande Achille”.[2]

Gli atteggiamenti della “marmaglia”, descritti da Pietro il Rosso non sono per niente nobilitanti del genere umano. Gli uomini al servizio nella nave sputano, ruttano, si ubriacano e soprattutto non parlano, ma borbottano…  si comportano, possiamo dire, “in modo bestiale”. La scimmia, chiusa nella gabbia, si costringe a diventare uomo non per elevarsi nella scala evolutiva, come si potrebbe pensare e neanche per una qualche forma di considerazione o di apprezzamento verso l’uomo, ma solamente per trovare una via di fuga.

 C’è un passo molto significativo nel testo, in cui la sovrapposizione delle due nature (umana e bestiale) assume un odore disgustoso per la scimmia: “…e poi non è neanche l’odore degli uomini che mi ripugna, ma l’odore umano che ho preso io e che si mescola…”[3]

La scimmia non riconosce alcuna superiorità all’uomo, anzi; quando si esibisce nei varietà per i quali è stata addestrata, è lei che ride degli umani, del loro audace ed in fondo, arido narcisismo.

“Spesso nei varietà, prima del mio numero, ho visto qualche coppia di artisti darsi da fare lassù sotto il tendone sul trapezio. Si lanciavano, si altalenavano, saltavano, si libravano abbracciati, uno teneva l’altro per i capelli con i denti… anche questa è libertà umana”, pensavo, “…ma, non c’è costruzione che resterebbe in piedi per le risate delle scimmie di fronte a un tale spettacolo”.[4]

Perfino la retorica declamatoria per la conferenza è caricata in modo tale da rendere ridicolo l’essere umano “accademico” che lui stesso, Pietro il Rosso, è diventato.

Il racconto di Kafka non riguarda solamente il “diventare-uomo” di una scimmia, ma anche il percorso inverso del diventare scimmia di un uomo: “La mia natura di scimmia uscì da me, fuggendo in corsa frenetica, con una capriola, tanto che il mio primo maestro divenne egli stesso quasi una scimmia e presto dovette abbandonare la mia istruzione e ricoverarsi in clinica”. [5]

Il nostro mondo accademico, sostiene Pietro il Rosso, può andare in qualsiasi direzione e persino nascondersi… “…senza mai guardare negli occhi il fondo di un uomo, o di una scimmia ammaestrata e confusa: ne ricaverebbe la follia di uno stato alienato”.

“Se torno tardi dai banchetti delle società scientifiche o da una piacevole compagnia, mi aspetta a casa una piccola scimpanzé semi-addomesticata, e presso di lei me la spasso alla maniera delle scimmie. Di giorno però non la voglio vedere; ha negli occhi la follia dell’animale addestrato e confuso; solo io lo vedo e non riesco a sopportarlo”. [6]

La scimmia conclude la sua relazione sul proprio processo di intima involuzione, anche se di entusiasmante successo, con queste parole: “anche questa che ho presentato davanti a voi, eccellenti signori dell’Accademia, era soltanto una relazione”.

In questo racconto, attraverso una scimmia che finisce senza alcun entusiasmo per diventare uomo, Kafka, dalla distanza (di sicurezza) che separa la scimmia dagli umani, ci parla della condizione umana, delle nostre catene, di chi le impone e di chi le subisce, di evoluzione e di involuzione così come della prigionia del nostro stesso linguaggio e ci espone così i suoi principi etici.

 

 

Il vecchio Cholstomér

 

Lev Tolstoj in un suo breve romanzo uscito per la prima volta nel 1886, intitolato Storia di un cavallo descrive la natura umana attraverso la “tecnica narrativa dello straniamento”: a parlare in prima persona è un cavallo che, dalla distanza che lo separa dagli uomini, guarda con occhi lucidi la nostra società. E’ proprio tramite questa presa di distanza, come nel caso della scimmia di Kafka, che l’autore/cavallo riesce a focalizzarsi su ciò che veramente gli stava a cuore nell’osservare il mondo intorno a lui: una sorta di indagine o forse, direi, di vera e propria condanna etico/ morale del genere umano.

Tolstoj descrive minuziosamente il vecchio Cholstomér, un castrone ormai fisicamente ammalato e indebolito dalla vecchiaia che veniva utilizzato come bestia da soma nella fattoria dove viveva. Un tempo Cholstomé era stato un imponente destriero, un purosangue che vinceva le gare correndo veloce come il vento, ma a causa del suo manto pezzato, un difetto non ammissibile per un cavallo di razza, fu venduto ad un nuovo padrone che lo faceva lavorare duramente e lo maltrattava.

«Ero tre volte infelice: ero pezzato, ero castrato, e di me gli uomini s’immaginavano che non appartenessi a Dio o a me stesso, come è per ogni essere vivente, ma che appartenessi al capo stalliere.»[7]

 La vita di Cholstomér fu determinata, sin dalla nascita, da questa sua caratteristica fisica, influenzata non solo da pregiudizi, definizioni ed etichette tipicamente umane, ma anche da parole che, come profezie, hanno limitato le sue possibilità e segnato il suo destino.

“Quando nacqui, io non sapevo cosa volesse dire pezzato, pensavo soltanto di essere un cavallo”.[8]

Oltre a questa triste condizione di vita, Cholstomér, ormai vecchio e malandato, subiva continue umiliazioni e veniva crudelmente schernito dai compagni di scuderia e dai giovani puledri. Fino a quando, un bel giorno, ha incominciato a raccontare loro, con linguaggio pieno di sentimenti, il proprio glorioso passato, dimostrando grande saggezza e acuta conoscenza della natura umana con i suoi vizi, meschinità e crudeltà.

Cholstomér ripercorre così la propria vita, dall’infanzia fino alla vecchiaia: i suoi primi sussulti amorosi, le sue speranze e delusioni, i suoi sogni infranti. Ogni notte una “puntata”, nel tentativo di spiegare, prima di tutto a se stesso, le cause della propria decadenza. Ed è attraverso il racconto sincero della propria vita che il nostro infelice cavallo guadagna sempre di più la stima ed il rispetto di tutti i compagni di scuderia.

Ciò che a noi umani appare scontato in quanto convenzionale, per Cholstomér, che guarda il mondo degli uomini dalla distanza che li separa dagli animali, appare invece come nonsenso, assurdità e ingiustizia. Il suo sguardo distante riesce a smascherare le ipocrisie, i vizi e l’irrimediabile crudeltà della natura umana.

Ecco per esempio il “diritto di proprietà” visto con gli occhi di un cavallo: “…allora non potevo capire cosa significava che chiamassero me proprietà di una persona. Le parole: il mio cavallo, riferite a me, un cavallo vivo, mi sembravano altrettanto strane quanto le parole: la mia terra, la mia aria, la mia acqua.”

“… per una sola e medesima cosa essi (gli uomini) si accordano perché uno solo possa dire – è mia. E quello che, in base a questo gioco stabilito tra di loro, dice del maggior numero di cose mio, quello è ritenuto il più felice di tutti. Perché sia così, non lo so; ma è così.”

“…In definitiva, allargato il numero delle mie osservazioni, mi convinsi che, non solo in riferimento a noi cavalli, l’interpretazione di mio non ha nessun altro fondamento se non il basso e animalesco uso umano, da loro chiamato senso o diritto di proprietà”.[9]

Per aver contratto la scabbia Cholstomér sarà destinato ad essere soppresso. Viene chiamato una specie di macellaio per sgozzarlo. Tolstoj così descrive, nella parte finale del racconto, la morte di Cholstomèr:

“Sentì dolore, ebbe un tremito, agitò una zampa; ma si trattenne e cominciò ad attendere ciò che doveva succedere poi… dopo successe che qualcosa di liquido gli colò giù, come un fiotto, sul collo e sul torace. Sospirò con tutte le costole. E si sentì leggero, molto più leggero. Tutta la pesantezza della sua vita divenne meno gravosa”.[10]

Il grande autore russo in questo caso non chiama “la cosa”, cioè “la morte” col suo nome, non la descrive attraverso concetti, ma “prende distanza dalla parola” e si sofferma sulle proprie sensazioni, come se la vedesse per la prima volta.

Questo tipo di descrizione, nel suo linguaggio poetico, risulta efficace nel ridare vita alla nostra percezione, rimasta inerte dalla consuetudine. Ci troviamo dinanzi ad un vero fenomeno artistico, come lo definisce Viktor Školvskij, ogni volta che, come in questo caso, “qualcosa è stato intenzionalmente liberato dell’ambito della percezione automatizzata e riacquisito una nuova vita”.[11]

 

L’Arte come presa di distanza

 

Scrive Proust “Il solo vero viaggio, la sola immersione nella giovinezza lo si farebbe non con l’andare verso nuovi paesaggi, ma con l’avere occhi diversi”.

“Occhi nuovi” richiedono una presa di distanza, un allontanamento, un passo indietro nel nostro sguardo sul mondo, attraverso il quale possiamo trovare la giusta posizione da cui cogliere l’essenza della realtà. Distanza non spaziale, ma emotiva: riuscire a guardare il mondo come qualcosa sconosciuto, come qualcosa che vediamo per la prima volta, con curiosità e meraviglia, tutto ancora da definire. Distanza che ci permette di aprire una nuova finestra sulla realtà che ci circonda e soprattutto sulle parole che usiamo per interpretarla. Parole che spesso ci sfuggono e si banalizzano, si caricano di consuetudine ed assumono una loro sbiadita autonomia.

“Bisogna sdraiarsi per terra tra gli animali per essere salvati,”[12] scrive Elias Canetti, in quanto dalla posizione eretta gli uomini guardano gli animali “dall’alto in basso”, con superiorità. “Sdraiarsi a terra tra gli animali” richiede una alterazione della prospettiva, uno stravolgimento della “distanza” abituale, in modo da poter guardare oltre agli animali, anche l’immensità del cielo. Poter vedere molto al di là delle nostre consuete definizioni.

 Se osserviamo attentamente il modo con cui percepiamo la realtà, ci accorgiamo che gli atti quotidiani così come le parole abituali tendono a prendere il sopravvento e diventare automatici. Possiamo persino spiegare le leggi del linguaggio corrente, considerando proprio l’automatismo di questi processi il cui peso è così schiacciante che finisce per inghiottire tutto, gli oggetti, i paesaggi, le persone… la vita stessa che perde così la sua linfa ed il suo profumo. Accedere alla “realtà” richiede una vera e propria battaglia contro i luoghi comuni ed i pregiudizi. Richiede la giusta distanza da falsità e stagnazione che significa, come afferma Sklovskij, guardare la realtà con uno “sguardo obliquo”, come un indovinello, come se non capissi ciò che accade per poter capire meglio.

Nella misura in cui la nostra percezione del mondo si fossilizza, così come le parole che usiamo per definirlo e “l’io” in un certo senso si separa da ciò che “non siamo”, il mondo intero intorno a noi sembra perdere la sua linfa vitale e ci appare, in un certo senso, “morto”. E’ attraverso l’opera d’arte che ci viene restituita l’essenza vitale/spirituale esistente dietro le parole e le cose del mondo.

Lo scopo ultimo di ogni autentica espressione artistica è quello di resuscitare la nostra percezione delle cose del mondo; di mostrarci la vita ed in un certo senso la “verità” che in esse scorre, proprio come se apparissero “nude” per la prima volta dinanzi a noi; di restituirci la pietra semplicemente come una pietra o, come si usa dire: “il pane come pane e il vino come vino”. Lo scopo finale di ogni autentica espressione artistica è quindi quello di fare emergere la verità nascosta dalla consuetudine, viva più che mai, dinanzi ai nostri occhi meravigliati.

L’arte, nel nostro caso la letteratura, è quindi un mezzo per esprimere anche il divenire delle cose, indipendentemente da ciò che è stato fino a questo momento, un mezzo per offrirci la “sensazione” dietro le parole. Più che un riconoscimento una vera e propria visione risanatrice. Una presa di distanza che lascia spazio ad una conoscenza più profonda della realtà.

 

 

ABSTRACT:

   

 

Allontanarsi per vedere meglio. La distanza che restituisce la verità

 

In uno dei racconti più originali di Franz Kafka intitolato Una relazione per un’accademia, l’autore, dalla distanza (di sicurezza) che separa la scimmia dagli umani, ci parla della condizione umana e ci espone i suoi principi etici. In un breve romanzo di Lev Tolstoj, intitolato Storia di un cavallo, a parlare in prima persona è un cavallo che, dalla distanza che lo separa dagli uomini, guarda con occhi lucidi la nostra società.

Ciò che a noi umani appare scontato in quanto convenzionale, per Cholstomér, il cavallo di Tolstoj e per Pietro il Rosso, la scimmia di Kafka, che guardano il mondo degli uomini dalla distanza che li separa dagli uomini, appare invece come nonsenso, assurdità e ingiustizia. Il loro sguardo distante riesce a smascherare le ipocrisie, i vizi e l’irrimediabile crudeltà della natura umana.

Anche per noi umani, “occhi nuovi” richiedono un allontanamento, un passo indietro nel nostro sguardo sul mondo, attraverso il quale possiamo trovare la giusta posizione da cui cogliere l’essenza della realtà. Distanza non spaziale, ma emotiva: riuscire a guardare il mondo come qualcosa sconosciuto, come qualcosa che vediamo per la prima volta, con curiosità e meraviglia, tutto ancora da definire.

L’arte, nel nostro caso la letteratura, è quindi un mezzo per offrirci oltre al  riconoscimento del mondo una vera e propria visione risanatrice: la “sensazione” dietro le parole, una presa di distanza che lascia spazio ad una conoscenza più profonda della realtà.

 

PAROLE CHIAVE: distanza, distanza di sicurezza, Cholstomér, Franz Kafka, Lev Tolstoj, arte, falsità, verità, visione risanatrice

 

KEE WORDS: distance, safety distance, Cholstomér, Franz Kafka, Lev Tolstoj, art, falsewood, truth, healing vision

 

AUTORE:

Virginia Salles è psicoterapeuta individuale e di gruppo, di formazione junghiana e transpersonale.  E’ certificata dal G.T.T. (Grof Transpersonal Training) a condurre gruppi di olotropica. E’ autrice dei libri Agua scura edito da Di Renzo Editore, 2005; Mondi invisibili. Frontiere della edito da Alpes Italia srl, 2013; Spazi oltre il confine. Temi e percorsi della psicologia del profondo tra C. G. Jung, e la Cabalà (Alpes Italia, 2015) e  di numerosi articoli sulla psicologia analitica e transpersonale. (sito web: www.virginiasalles.it).

 

 

AUTHOR:

Virginia Salles, born in Bahia, Brazil, has study psychology in Rome, where she currently works and studies. An individual, and group, Jungian therapist, she has specialised in transpersonal psycholotherapy, and holotropic breathing with Stanislav Grof. Author of “Agua scura” published by Di Renzo Editore, 2005, “Mondi invisibili. Frontiere della psicologia transpersonale” published by Alpes Italia, 2013, and  “Spazi oltre il confine. Temi e percorsi della psicologia del profondo tra C. G. Jung, e la Cabalà” published by Alpes Italia, 2015, and of numerous articles on anatiytical and transpersonal psychology. (web site: www.virginiasalles.it).

 

[1] Kafka, F., Tutti i racconti, Oscar Mondatori, Milano, 1976, p. 129

 

[2] Ibidem, p.130

3 Ibidem, p. 135

[4] Ibidem, p.142

[5] Ibidem, p. 140

[6] Ibidem, pag. 139

[7] Tolstoj, L., Cholstomer, Storia di un cavallo, Editore Controluce, Nardò, 2014, p. 32

[8] Ibidem, p. 9

[9] Ibidem, p. 35, 36

[10] Ibidem, p. 58

[11] Školvskij, V. cit. da Carlo Ginsburg in Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Giangiacomo Feltrinelli editore, Milano, 1998

[12] Canetti, E. La coscienza delle parole, Adelphi e-Book